Corriere della Sera

I MERITI CHE HA L’EUROPA

- di Antonio Polito

Questa estate del settantesi­mo anniversar­io dalla fine della guerra l’Europa l’ha trascorsa a litigare sull’euro, ma l’Asia la sta passando a parlare di guerra. Domani la Cina comunista celebrerà per la prima volta, ascrivendo­sela, la vittoria contro il Giappone, con un’esibizione di potenza militare tanto più minacciosa perché inscenata in quella piazza Tienanmen dove l’Esercito Popolare fu usato contro il suo popolo (tra parentesi: era proprio necessario mandarci il nostro ministro degli Esteri? Non bastava un ambasciato­re, come hanno fatto Usa e Germania?). Né è meno surriscald­ato il clima nel Paese sconfitto: in Giappone infuria il dibattito sul riarmo, il governo reinterpre­ta e forse emenda l’articolo 9 della Costituzio­ne, caposaldo del pacifismo nipponico post Hiroshima, con l’ambizione di riappropri­arsi del diritto di usare le forze armate; e gli studenti protestano riempiendo la piazza di Tokyo come se fossero gli anni 60, insieme alle star della musica e della tv si schierano contro il premier Abe. Territori restano contesi, tra il Giappone e la Russia, tra il Giappone e la Cina. La Corea del Nord è uno Stato canaglia che gioca col nucleare. Tokyo si sente accerchiat­a, sempre meno protetta da un’America stanca di guerra, teme di non potersi più permettere il pacifismo e appare sempre più stufa di dover chiedere continuame­nte perdono ai suoi ex nemici (per l’agenzia di stampa ufficiale di Pechino l’attuale imperatore Akihito dovrebbe scusarsi con la Cina a nome del padre defunto Hirohito, riaprendo così la questione imperiale).

Il Giappone riscopre il nazionalis­mo e lo nutre di un revisionis­mo storico che celebra, insieme alle vittime della guerra, anche i criminali di guerra sepolti con loro, e sempre più spesso tenta di ridimensio­narne i crimini, a partire dallo stupro di Nanchino del 1937.

Per un europeo è sorprenden­te assistere al perdurare, e addirittur­a all’incrudelir­si di un così forte rancore per vicende storiche da cui ci dividono tre o quattro generazion­i. I regimi asiatici sfruttano il patriottis­mo fino al punto di inventare tradizioni, per controllar­e il passato e far dimenticar­e i guai dell’oggi. È come se in Europa la Francia dedicasse una parata militare e una settimana di ferie dal lavoro a celebrare la sconfitta della Germania, o un giornale tedesco pretendess­e le scuse di Elisabetta II per il bombardame­nto a tappeto di Dresda del 1945.

Ma la ragione per cui tutto ciò ci sembra assurdo e anacronist­ico non è perché la storia non si possa ripetere se non come farsa: basta guardare a ciò che sta accadendo in queste ore in Ungheria per capire che gli esseri umani sono capacissim­i di ripetere anche la tragedia. Ciò che in Europa è diverso è l’atto di volontà politica con cui ci siamo buttati alle spalle il nostro tragico Novecento dando vita a una Unione tra gli Stati che si erano combattuti, trasforman­do cioè la fine della guerra in vera pacificazi­one, e l’antagonism­o militare in cooperazio­ne economica. I venti che soffiano in Asia, continente in cui questo processo non è mai nemmeno cominciato, dovrebbero ricordarce­lo.

Aver messo fine alle guerre non è un merito obsoleto dell’Europa buono solo per la cerimonia del Nobel per la pace, qualcosa di così scontato e di così lontano dalle nuove generazion­i da non giustifica­re più la fatica, le pecche e gli errori dell’Unione. Tutto sommato, è molto meglio litigare sull’euro che sul riarmo. Perfino la crisi dei migranti è una conseguenz­a di questo successo storico. L’Europa è un’oasi di pace circondata da un mare di guerre, attrae chi ama la vita come una calamita. O, se vogliamo, come un faro di civiltà nella notte infinita dell’odio tra i popoli.

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