SE IL DATORE DI LAVORO CI SORVEGLIA SUL COMPUTER
Caro direttore, fino a che punto siamo disposti ad accettare che il nostro datore di lavoro monitori il computer o il telefonino che ci ha fornito? Saremmo tranquilli se potesse conoscere, magari in tempo reale, quali programmi stiamo utilizzando e quali siti stiamo visitando? E che cosa diremmo se potesse usare tali dati non soltanto per verificare che l’apparecchio affidatoci non venga danneggiato o rubato, ma anche per valutare il nostro lavoro, per definire premi e sanzioni disciplinari?
È quanto verrà deciso con uno dei decreti attuativi del Jobs act, presumibilmente nel prossimo Consiglio dei ministri. Dalla risposta a questi interrogativi passa non solo una significativa parte della disciplina lavoristica ma, più in generale, la concezione stessa di lavoro e, forse, di persona.
Lo statuto dei lavoratori ha quasi mezzo secolo: fa dunque bene il governo a volerlo aggiornare. Oggi, però, a essere oggetto di controllo non sono principalmente le cosiddette tute blu, ma quasi tutti i lavoratori: dagli impiegati pubblici ai funzionari di banca, dalle segretarie ai manager, passando anche per categorie sulle quali i controlli assumono un significato del tutto particolare, come i magistrati o i giornalisti.
Inoltre, stando almeno allo schema di decreto presentato al Parlamento, se da un lato, per gli strumenti di controllo più tradizionali come la videosorveglianza, le garanzie previste nel 1970 da accordo sindacale o, in mancanza, decisione del ministero del Lavoro resterebbero sostanzialmente inalterate, nonostante l’esperienza abbia mostrato i limiti di questi meccanismi, molto spesso ridotti a un inutile orpello burocratico, dall’altro, rimarrebbero fuori da tale pur discutibile procedura gli «strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa», quali computer, tablet e telefonini. Tuttavia, sono proprio questi ultimi a consentire i controlli più pervasivi: se una normale telecamera mi riprende mentre lavoro al computer, difficilmente riesce a distinguere se sto scrivendo a un collega o a un amico, se sto cercando un documento sul sito aziendale o prenotando la mia prossima vacanza. Controllando direttamente il computer tutto questo appare invece chiaro.
La stessa videosorveglianza peraltro non è più soltanto la semplice ripresa di immagini che aveva in mente il legislatore del ‘70: oggi le telecamere, oltre a essere presenti quasi ovunque, sono diventate «intelligenti»: possono cogliere segnali quasi impercettibili del comportamento umano, sintomi di stanchezza, cambiamenti di umore, e addirittura possibili malattie.
Di fronte a tale pervasività, è ragionevole prevedere che i dati così raccolti possano essere usati per «tutti i fini connessi al rapporto di lavoro»? Ed è sufficiente che il lavoratore sia pienamente informato, per poi lasciare il datore di lavoro libero di svolgere anche i controlli più pervasivi? E questo vale allo stesso modo per tutti i lavoratori e i datori di lavoro?
Certo, la necessità di seguire la normativa sulla privacy — opportunamente richiamata nel decreto — offre la garanzia che i principi fondamentali sulla protezione dei dati saranno rispettati, ma siamo sicuri che questo basti a evitare ogni abuso o anche — più semplicemente — a superare le tante incertezze che già oggi accompagnano tale disciplina? Da ultimo, si è veramente certi che la legge di delega, che mirava a revisionare la disciplina dei controlli «sugli impianti e sugli strumenti di lavoro» consenta anche di ridisegnare in maniera tanto profonda i controlli «sui lavoratori»?
Sono domande che occorre porsi, sforzandosi per una volta di abbandonare ogni pretesa di monopolio della ragione, sapendo che nessuno ha la verità in tasca, e che tutti dobbiamo avvicinarci con umiltà ed equilibrio a una materia tanto complessa e delicata.