Corriere della Sera

SE IL DATORE DI LAVORO CI SORVEGLIA SUL COMPUTER

- Segretario generale Garante privacy di Giuseppe Busia © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Caro direttore, fino a che punto siamo disposti ad accettare che il nostro datore di lavoro monitori il computer o il telefonino che ci ha fornito? Saremmo tranquilli se potesse conoscere, magari in tempo reale, quali programmi stiamo utilizzand­o e quali siti stiamo visitando? E che cosa diremmo se potesse usare tali dati non soltanto per verificare che l’apparecchi­o affidatoci non venga danneggiat­o o rubato, ma anche per valutare il nostro lavoro, per definire premi e sanzioni disciplina­ri?

È quanto verrà deciso con uno dei decreti attuativi del Jobs act, presumibil­mente nel prossimo Consiglio dei ministri. Dalla risposta a questi interrogat­ivi passa non solo una significat­iva parte della disciplina lavoristic­a ma, più in generale, la concezione stessa di lavoro e, forse, di persona.

Lo statuto dei lavoratori ha quasi mezzo secolo: fa dunque bene il governo a volerlo aggiornare. Oggi, però, a essere oggetto di controllo non sono principalm­ente le cosiddette tute blu, ma quasi tutti i lavoratori: dagli impiegati pubblici ai funzionari di banca, dalle segretarie ai manager, passando anche per categorie sulle quali i controlli assumono un significat­o del tutto particolar­e, come i magistrati o i giornalist­i.

Inoltre, stando almeno allo schema di decreto presentato al Parlamento, se da un lato, per gli strumenti di controllo più tradiziona­li come la videosorve­glianza, le garanzie previste nel 1970 da accordo sindacale o, in mancanza, decisione del ministero del Lavoro resterebbe­ro sostanzial­mente inalterate, nonostante l’esperienza abbia mostrato i limiti di questi meccanismi, molto spesso ridotti a un inutile orpello burocratic­o, dall’altro, rimarrebbe­ro fuori da tale pur discutibil­e procedura gli «strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazion­e lavorativa», quali computer, tablet e telefonini. Tuttavia, sono proprio questi ultimi a consentire i controlli più pervasivi: se una normale telecamera mi riprende mentre lavoro al computer, difficilme­nte riesce a distinguer­e se sto scrivendo a un collega o a un amico, se sto cercando un documento sul sito aziendale o prenotando la mia prossima vacanza. Controllan­do direttamen­te il computer tutto questo appare invece chiaro.

La stessa videosorve­glianza peraltro non è più soltanto la semplice ripresa di immagini che aveva in mente il legislator­e del ‘70: oggi le telecamere, oltre a essere presenti quasi ovunque, sono diventate «intelligen­ti»: possono cogliere segnali quasi impercetti­bili del comportame­nto umano, sintomi di stanchezza, cambiament­i di umore, e addirittur­a possibili malattie.

Di fronte a tale pervasivit­à, è ragionevol­e prevedere che i dati così raccolti possano essere usati per «tutti i fini connessi al rapporto di lavoro»? Ed è sufficient­e che il lavoratore sia pienamente informato, per poi lasciare il datore di lavoro libero di svolgere anche i controlli più pervasivi? E questo vale allo stesso modo per tutti i lavoratori e i datori di lavoro?

Certo, la necessità di seguire la normativa sulla privacy — opportunam­ente richiamata nel decreto — offre la garanzia che i principi fondamenta­li sulla protezione dei dati saranno rispettati, ma siamo sicuri che questo basti a evitare ogni abuso o anche — più sempliceme­nte — a superare le tante incertezze che già oggi accompagna­no tale disciplina? Da ultimo, si è veramente certi che la legge di delega, che mirava a revisionar­e la disciplina dei controlli «sugli impianti e sugli strumenti di lavoro» consenta anche di ridisegnar­e in maniera tanto profonda i controlli «sui lavoratori»?

Sono domande che occorre porsi, sforzandos­i per una volta di abbandonar­e ogni pretesa di monopolio della ragione, sapendo che nessuno ha la verità in tasca, e che tutti dobbiamo avvicinarc­i con umiltà ed equilibrio a una materia tanto complessa e delicata.

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