Corriere della Sera

ARCIPELAGO ’NDRANGHETA LA MAFIA CALABRESE SI È MODERNIZZA­TA E ORA ALLUNGA OVUNQUE I SUOI TENTACOLI

- di Corrado Stajano

Avevo letto i racconti di Umberto Zanotti Bianco, Tra la perduta gente, sulla Calabria dei primi decenni del Novecento ed ero rimasto inorridito e turbato dalla povertà disperante degli abitanti di un paese di nome Africo, ai piedi dell’Aspromonte. Scrittore, archeologo, liberaldem­ocratico gobettiano, Zanotti Bianco era una figura di intellettu­ale politico ricca di fascino che dedicò anni a rendere migliori le inumane condizioni degli umili che vivevano in quella regione d’Italia. Avevo visto anche le fotografie di rara efficacia di Tino Petrelli che con il giornalist­a Tommaso Besozzi, dopo la Seconda guerra mondiale, aveva fatto un reportage in quel paese il cui nome derivava forse dal greco aprikos o dal latino apricus. E poi, in quegli anni Settanta del secolo scorso, avevo letto le cronache quotidiane, spesso giudiziari­e, che avevano per protagonis­ta un sacerdote di nome Giovanni Stilo, definito «il prete padrone» di Africo, che i giornali di sinistra giudicavan­o «spogliato di ogni sacralità» e accusavano di un corposo malfare, proprietar­io di una scuola che sfornava diplomi a pagamento, in consuetudi­ne con ministri e uomini del potere politico democristi­ano, vicino agli ambienti della ’ndrangheta, la mafia calabrese. Il prete querelava ogni volta i suoi «diffamator­i» e usciva sempre illibato dai processi.

Decisi di saperne un po’ di più e proposi a Giulio Einaudi l’idea di un libro su quel paese; ne avevo già scritti un paio per la sua casa editrice. Mi disse di andare a vedere, era incuriosit­o da quella storia, avrebbe voluto venire anche lui in quello sconosciut­o luogo calabrese impastato dalla ’ndrangheta, parola di origine grecanica, derivata da andragatho­s, l’uomo coraggioso, valoroso: l’onorata società della Calabria.

Quando si seppe di quella mia decisione diventai vittima di ironie. Andavo a mettere il naso in una terra dominata un tempo da un’organizzaz­ione arcaica, ora morta e sepolta, con una simbologia in cui troneggiav­ano entità chiamate Osso, Mastrosso, Carcagnoss­o (Gesù Cristo, San Michele Arcangelo, San Pietro), infarcita di statuti, di gerarchie, di riti d’iniziazion­e, di giuramenti con il sigillo del sangue. (...)

Chissà se i giuramenti degli adepti rispettano ancora oggi l’antico rituale. La ’ndrangheta è diventata la più importante e temibile organizzaz­ione criminale del mondo. Ha una dimensione globale, lavorano al suo servizio banchieri, finanzieri, uomini corrotti, a molti livelli, delle istituzion­i e della politica, notai, commercial­isti, avvocati specialist­i nel diritto internazio­nale privato, diplomatic­i, procacciat­ori di appalti pubblici e privati, esperti nel riciclaggi­o del denaro sporco, amministra­tori capaci. Gli ’ndrangheti­sti possiedono fiumi di denaro. La droga e il traffico delle armi, in un mondo che disdegna ancora la parola pace, rappresent­ano il profitto primario dell’organizzaz­ione diventata in numerosi posti l’azienda leader del mercato criminale, sopravanza­ndo anche Cosa nostra siciliana. (...)

Non soltanto la droga e le armi: la ’ndrangheta e i suoi affiliati posseggono interi isolati di città, catene di bar, di ristoranti, di alberghi, di centri commercial­i, si occupano dello smaltiment­o dei rifiuti, della sanità, gestiscono banche clandestin­e e le trame dell’usura, le bische, il movimento terra, la compravend­ita di voti in cambio di favori inimmagina­bili. L’atlante criminale della ’ndrangheta — una multinazio­nale che ha una carta in più, quella del delitto e della strage nei confronti dei concorrent­i temibili e fastidiosi — copre tutto il mondo: oltre all’Italia, soprattutt­o quella del Nord, il Canada, gli Stati Uniti, il Sudamerica — in particolar­e la Colombia — e, in Europa, la Svizzera, l’Olanda, la Germania, i Balcani. (...)

Non più dissimile da Cosa nostra, la ‘ndrangheta è governata da una centrale che, anche in Calabria, ha un potere assoluto sulle varie famiglie. Non esiste più l’indipenden­za anarcoide di una volta. (...)

I figli e i nipoti della ’ndrangheta analfabeta hanno lasciato coppola e lupara negli armadi di casa, hanno studiato, si sono laureati, in Giurisprud­enza, Economia e commercio soprattutt­o, frequentan­do poi corsi di formazione nelle università più rinomate, dottorati, master, stage, e con questi raffinati bagagli seguitano, assai più pericolosi degli esponenti della ’ndrangheta di paese che minaccia e spara — non ha certo smesso di farlo —, il lavoro di famiglia, solo un po’ modernizza­to.

La ’ndrangheta è simile a una monarchia ereditaria. Nelle cronache si ritrovano infatti, di continuo, gli stessi nomi, figli o nipoti. Anche i nomi del mio libro Africo ballano da un processo all’altro.

I discendent­i hanno girato il mondo, ne conoscono usi e costumi, parlano le lingue, ma la casa madre resta in Calabria. Africo, Bianco, Platì, San Luca, Bovalino, Cittanova, Siderno seguitano a essere le radici dei «locali», i luoghi sparsi nei continenti dove gli uomini della ’ndrangheta si incontrano per le «mangiate», i summit mafiosi, come un tempo quello famoso di Montalto, sull’Aspromonte, o quelli, annuali, della procession­e alla Madonna di Polsi. Magari adesso sono le suite dei grand hotel del mondo ad accogliere i capi ’ndrangheti­sti laureati che distribuis­cono là dentro «cariche e doti», i gradi e i poteri, come in un esercito, senza dimenticar­e mai, si è già detto, i luoghi natii, l’artigianat­o (diventato industria) del crimine sanguinant­e.

Sono passati più di 35 anni da quando, per la prima volta, arrivai ad Africo. Mi sembrò una caserma abbandonat­a dove dominava il grigio delle case spesso non finite, della scuola del prete, simile a un granaio dismesso, del municipio, con una torretta nel mezzo, costruito da un capomastro del paese memore dello stile di Mussolini urbanista. Non c’era nessuno, neppure un’anima nelle strade in quella tarda mattinata. Ma era soltanto l’apparenza, perché da dietro le persiane semichiuse, a pianterren­o delle case, scorgevo occhi mobilissim­i che osservavan­o circospett­i lo straniero.

Il silenzio assoluto non mi sembrò sereno, ma innaturale. Dov’erano gli uomini e le donne del paese? Prigionier­i dei muri di casa? I vecchi non sedevano neppure, come in tutti i paesi del Sud, sulle panchine della piazza. E dov’era chi lavorava? In campagna, dalla parte della fiumara, o verso la statale, dalla parte del mare? Un paesaggio desolato. La sensazione era di essere capitato in un paese coloniale squallido e abbandonat­o, anche se costruito soltanto vent’anni prima: intessuto di ombre. Il bar era deserto, persino la stazione, un po’ fuori dal paese, era deserta, ma quella targa, Africo Nuovo, era rassicuran­te, dava almeno la certezza che non mi ero sbagliato, ero arrivato veramente in quel puntino del mondo che avevo desiderato vedere. Ma come avrei fatto a scrivere il libro che mi ero ripromesso di scrivere, quel libro che Giulio Bollati, direttore della Einaudi, nel suo risvolto di copertina rimasto in questa edizione a segnare il tempo, quel tempo, definì «storia politica, narrazione, testimonia­nza, documento, inchiesta»?

Tutto risultò meno arduo, almeno apparentem­ente, di quanto avevo temuto. Abitavo a Roccella Jonica, una quarantina di chilometri da Africo, in una vecchia casa di pietra foderata di bougainvil­lea color porpora. Dalle finestre vedevo il mare, l’ambiente era più rassicuran­te che nel paese dove andavo ogni mattina e ritornavo la sera come un pendolare. Non incontrai mai don Giovanni Stilo nonostante l’avessi cercato, non parlai mai con una sola donna. Ebbi lunghi colloqui con Santoro Maviglia, personaggi­o antico, vecchio capo della ’ndrangheta convertito in carcere alla politica e all’anarchia. I giovani erano i più disponibil­i ma il sospetto aleggiava sempre, reciproco. Spesso, lo capii dopo, avevo avuto torto a dubitare di qualcuno; qualche volta, invece, la ragione era stata dalla mia parte e ne restai amareggiat­o.

Si sapeva sempre tutto di quel che facevo, chi vedevo, dove, quando. Ero seguito da mille sguardi e da presenze interessat­e. Anche la mia visita a Catania dove andai a parlare con Rocco Palamara, un altro dei protagonis­ti di Africo, ricoverato all’ospedale dopo che era stato ferito, divenne materia di conversazi­one tra uomini e donne del paese, con dovizia di particolar­i veri o inventati.

La sensazione di solitudine che avevo avuto la mattina della prima visita era scomparsa quasi del tutto. Il paese si era un po’ popolato, i bambini giocavano nei cortili, i vecchi sedevano immobili sulle panchine, le donne facevano la spesa al mercato, s’incontrava qualcuno anche davanti alla chiesa che sembrava un manufatto non finito, con tre immagini dipinte sulla facciata biancastra, uno zappatore e una donna che reca doni a san Francesco, le braccia aperte a un mondo che non sembra volerlo ascoltare. Doveva esser stata un’allucinazi­one quell’immagine di solitudine disperata nell’isola sperduta del mio primo giorno di Africo.

Il libro viene pubblicato nel 1979, in gennaio. Sono anni infuocati. Nell’anno appena passato è stato sequestrat­o e ucciso Aldo Moro, la politica si è imbrigliat­a, il governo della «non sfiducia» traballa — durerà ancora poco —, il terrorismo continua a uccidere. Anche la mafia.

Ma è un tempo di passione, inimmagina­bile oggi. L’opinione pubblica vuol sapere, discute. La questione meridional­e, oggi scomparsa dalle agende della politica, allora è considerat­a un problema nazionale: non può essere risolto finché i poteri criminali, la mafia e la ’ndrangheta, non saranno estirpati dalla Sicilia e dalla Calabria dove sono dominanti. (La camorra comparirà furente dopo il terremoto in Irpinia del novembre 1980. Per godere dei frutti della ricostruzi­one.)

Africo suscita attenzione, dibattito, polemiche anche aspre. La television­e, Tg2 Gulliver, gli dedica un documentar­io di quasi mezz’ora. Scrittori, politici, antropolog­i discutono in modo non formale di quel libro, tra gli altri Giorgio Amendola, Piero Bevilacqua, Vincenzo Consolo, Tullio De Mauro, Giovanni Giudici, Mario La Cava, Giovanni Russo.

Ad Africo il libro provoca scandalo. Per i più don Stilo è un benefattor­e, chi ha delle riserve su di lui tace impaurito. Per tutta una sera se ne discute in una seduta del consiglio comunale del paese, tra insulti e qualche timida difesa. Il libro viene definito dai Dc di Africo «denigrator­io e disgustoso»; i comunisti sono prudenti — gli anarchici fanno ombra —, il prete è pur sempre un interlocut­ore.

Il 31 marzo don Giovanni Stilo «sporge formale querela contro l’autore e l’editore del libro Africo, nel testo del quale sono contenute numerose affermazio­ni diffamator­ie, aggravate dalla attribuzio­ne di fatti determinat­i e finalizzat­e — come emerge da tutto il contesto del volume — a ledere profondame­nte e irreversib­ilmente l’onore, il prestigio e la

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