Lo scrittore è morto ieri a 99 anni Cancogni, l’inquieto tra letteratura e sport
reputazione del querelante sia come uomo che come sacerdote».
La giustizia italiana è solitamente lenta. Non in questo caso. Il 18 luglio autore ed editore di Africo sono invitati a comparire davanti al Tribunale di Torino, la città dove è stato stampato il libro.
Arrivavano nel mio studio di Milano telefonate di minaccia, anche di morte. Disturbanti. Pareva che quelle voci urlanti forassero i muri della quieta stanza. Giulio Einaudi, a Torino, trovava ogni giorno sottocasa uomini neri, immobili come le figure di uno sfondo di teatro. Disturbanti anche loro. Era come se facessero la guardia, intimidenti, all’uomo che li aveva offesi.
Un’aula del vecchio Tribunale torinese ospitava il processo. Il presidente, Elvio Fassone, fece in udienza l’istruttoria che il rito direttissimo non permetteva. Chiedeva, ascoltava, richiedeva, protagonista la ’ndrangheta calabrese portatrice di violenza e di morte. Sedevo su una panchetta vicino a Giulio Einaudi nella luce flebile che veniva dagli alti finestroni. Don Stilo era arrivato a Torino con una piccola corte. I nostri avvocati, di gran nome, Vittorio Chiusano, Bianca Guidetti Serra e il più giovane Giampaolo Zancan, erano esperti e agguerriti. I processi di mafia sono difficili, è arduo provare la verità dei fatti. Non sono stati molti, negli anni, i processi di quel genere — mafia e informazione — andati a buon fine.
Elvio Fassone conduceva il dibattimento con autorità, non dava mai nulla per scontato. Capivo che il punto focale del processo erano quei nomi che nelle mie pagine non avevo fatto. Chi erano il coltivatore diretto, l’imprenditore, il professore di liceo, il commerciante, il sindacalista, l’impiegato? Erano persone in carne e ossa, non avevo inventato nulla di quel che mi avevano detto, a favore o contro il prete. Fedele allo spasimo. Non volevo dire chi erano, ben cosciente che alcuni di loro avrebbero rischiato la vita.
La richiesta del Tribunale era impellente, il processo era in bilico. Decisi così di fare il nome dell’allora presidente del Tribunale di Locri, Guido Marino, l’avevo incontrato un paio di volte parlando a lungo con lui. Anche se ora, per quieto vivere, avrebbe potuto dire di non avermi mai visto.
La sua lunga testimonianza davanti al Tribunale di Torino (il 13 novembre 1979) fu una vera lezione sulla ’ndrangheta e su don Giovanni Stilo: cementò le accuse su di lui e aggravò la sua posizione processuale di querelante. Fu essenziale per la mia assoluzione. Ha scritto Elvio Fassone nella sua sentenza («Giurisprudenza italiana», aprile 1982): il consigliere Marino «ha non solo confermato la genuinità delle dichiarazioni che Stajano gli attribuisce nel libro sotto un riguardoso anonimato, ma ha arricchito il quadro con l’esperienza che deriva a colui che per molti anni ha goduto di un eccezionale osservatorio, quale poteva essere l’ufficio di presidente del Tribunale di Locri. La definizione di “prete, sceriffo, governatore” se non si sustanzia di numerosi fatti concreti (al di là di quello, peraltro non insipido, nell’ottica dei rapporti mafiosi, dell’intromissione di don Stilo nel ratto di una maestrina sequestrata da mafiosi) ha però tutta l’autorevolezza della fonte qualificata ed esperta, avvezza a distinguere tra prova e sospetto, ma capace di percepire come il sospetto — in un ambiente come quello africota — possa anche significare prova abortita, o inquinata o intercettata».
La sentenza del giudice Elvio Fassone è stata per me più gratificante di tante lusinghiere recensioni di letterati illustri. Ha toccato la miserabile vita di poveri cristi, la sopraffazione protagonista di un frammento dell’Italia abbandonata. Il diritto riconosciuto a chi scrive di informare, secondo le regole, di rivelare anche le piaghe più oscure e torbide della società italiana fa da cardine alla sentenza.
Qualche cenno. «È bene premettere che il requisito formale della comunicazione del pensiero — e cioè la “continenza” dei modi usati — non è in discussione, poiché lo stile di S. è costantemente sorvegliato e l’autore rifugge per quanto è possibile dall’adottare espressioni o giudizi propri, ricorrendo quasi sempre a testimonianze e a riferimenti esterni (…), con ampio ricorso a stralci di sentenze, requisitorie, atti giudiziari o di polizia». E poi: «La figura di don Stilo, pur essendo egli un evidente protagonista della storia locale, non la sovrasta, né la esaurisce. Non don Stilo, ma Africo è l’oggetto dell’indagine di S., perché è Africo il microcosmo dolente che riproduce pregi e difetti, speranze e corruzioni di tutto un modo di vivere, di una cultura e di un tessuto che sono i veri temi dell’impegno civile sotteso dal libro». E ancora: «S. è minuzioso nel riferire tutti i dati reperibili, talora addirittura con la pedanteria di chi sa di camminare su un terreno minato, e vuole sottolineare a ogni costo l’obiettività dei riscontri». E infine: «Chiunque voglia fare applicazione di questi principi (il diritto alla comunicazione del pensiero) alla materia trattata da S. (…), quel cancro sociale che è la mafia nelle sue varie accezioni, si rende immediatamente conto di come una accurata, costante e impegnata denuncia possa servire a quella maturazione collettiva delle coscienze che è l’unico argine possibile contro il fenomeno».
L’8 gennaio 1980 Giulio Einaudi e io fummo assolti dal Tribunale di Torino con la formula piena: «Il fatto non costituisce reato». In quei giorni i giovani comunisti della costa jonica della Calabria stamparono e appiccicarono ai muri dei loro paesi un manifesto che diceva: «Ogni tanto la prepotenza non vince».
Per me fu una medaglia al valore. Qui sopra: un gruppo di operai forestali sull’Aspromonte. Nella pagina a sinistra, dall’alto: bambini di Africo Nuovo; l’altare di una chiesa di Africo Vecchio, paese montano che fu distrutto da un’alluvione nel 1951 e ricostruito in riva al mare; don Giovanni Stilo, prete e figura preminente di Africo Nuovo, in Tribunale a Torino. Tutte le fotografie sono di Giovanna Borgese
Manlio Cancogni era nato 99 anni fa del tutto inopinatamente a Bologna mentre la sua vita si è svolta interamente all’insegna della toscanità. Cancogni è stato lo scrittore della Versilia e delle Apuane ma senza limiti localistici o provincialistici. E non poteva essere diversamente per un autore che aveva mosso i primi passi in letteratura sulle orme di Joyce, ma il Joyce di Gente di Dublino, non dell’Ulisse. Cancogni ha attraversato il Novecento senza saltare un appuntamento con la Storia. Ha vissuto da giovane nella Roma di Mussolini. Ha combattuto in Albania (da cui La linea del Tomori, uno dei romanzi di guerra italiani più originali e intensi). È stato uno dei più focosi leader della Resistenza in Toscana e, contemporaneamente, una delle figure più contestate.
In quel frangente tempestoso apparvero sui muri di Firenze graffiti con scritto «A morte Cancogni». È uno dei tanti episodi che testimoniano l’indipendenza di giudizio che è sempre stata la sua caratteristica, a qualsiasi prezzo. Il suo sguardo sugli uomini e sulle cose sapeva essere spietato (mentre era pietoso). Anche con se stesso Cancogni non era tenero. Una grande lezione di vita gliela impartì con ferrea dolcezza Giovanni XXIII. Il futuro Papa, ancora nunzio apostolico, si imbatté in un Cancogni confuso e lamentoso (accadde prima della guerra quando lo scrittore era andato a insegnare nell’Europa dell’Est e ne era scontento) e lo redarguì invitandolo a vivere la vita senza cercare alibi e scusanti. Lo scrittore lo prese in parola.
Cancogni è stato insieme e in maniera inestricabile un romanziere e un giornalista. Da grande firma dell’«Espresso» e dei più importanti quotidiani italiani scrisse pezzi entrati nella leggenda come l’inchiesta sulla burocrazia romana (Capitale corrotta = Nazione infetta) che sembra fatta, a nostro disonore, in questi giorni. Cancogni raccontava in seguito di averla scritta ispirandosi alle Anime morte di Gogol’. Quando scriveva gli articoli aveva in mente la grande letteratura e quando scriveva romanzi si guardava attorno con la curiosità del giornalista.
Era qui forse il segreto di una prosa che sembrava essere attuale ed eterna insieme, nevrile e saggia, come nel suo memorabile necrologio di Fausto Coppi così come nel suo romanzo più bello che è Parlami, dimmi qualcosa, un romanzo coniugale. Ma il vertice della sua arte fu La carriera di Pimlico, probabilmente il più bel racconto italiano del Novecento, la storia di un difficile purosangue, forse un’autobiografia mascherata (glielo chiesi, si trincerò in un vago sorriso dietro l’immancabile papillon).
L’inquietudine portava Cancogni nelle capitali europee (a Londra e a Parigi era di casa) e in America dove insegnò letteratura
Tra i suoi libri:
(Barion), sull’amicizia con Carlo Cassola; sugli anarchici italiani (Mursia). Recentemente Elliot ha ripubblicato molti suoi titoli