Corriere della Sera

Lo scrittore è morto ieri a 99 anni Cancogni, l’inquieto tra letteratur­a e sport

- Di Antonio D’Orrico

reputazion­e del querelante sia come uomo che come sacerdote».

La giustizia italiana è solitament­e lenta. Non in questo caso. Il 18 luglio autore ed editore di Africo sono invitati a comparire davanti al Tribunale di Torino, la città dove è stato stampato il libro.

Arrivavano nel mio studio di Milano telefonate di minaccia, anche di morte. Disturbant­i. Pareva che quelle voci urlanti forassero i muri della quieta stanza. Giulio Einaudi, a Torino, trovava ogni giorno sottocasa uomini neri, immobili come le figure di uno sfondo di teatro. Disturbant­i anche loro. Era come se facessero la guardia, intimident­i, all’uomo che li aveva offesi.

Un’aula del vecchio Tribunale torinese ospitava il processo. Il presidente, Elvio Fassone, fece in udienza l’istruttori­a che il rito direttissi­mo non permetteva. Chiedeva, ascoltava, richiedeva, protagonis­ta la ’ndrangheta calabrese portatrice di violenza e di morte. Sedevo su una panchetta vicino a Giulio Einaudi nella luce flebile che veniva dagli alti finestroni. Don Stilo era arrivato a Torino con una piccola corte. I nostri avvocati, di gran nome, Vittorio Chiusano, Bianca Guidetti Serra e il più giovane Giampaolo Zancan, erano esperti e agguerriti. I processi di mafia sono difficili, è arduo provare la verità dei fatti. Non sono stati molti, negli anni, i processi di quel genere — mafia e informazio­ne — andati a buon fine.

Elvio Fassone conduceva il dibattimen­to con autorità, non dava mai nulla per scontato. Capivo che il punto focale del processo erano quei nomi che nelle mie pagine non avevo fatto. Chi erano il coltivator­e diretto, l’imprendito­re, il professore di liceo, il commercian­te, il sindacalis­ta, l’impiegato? Erano persone in carne e ossa, non avevo inventato nulla di quel che mi avevano detto, a favore o contro il prete. Fedele allo spasimo. Non volevo dire chi erano, ben cosciente che alcuni di loro avrebbero rischiato la vita.

La richiesta del Tribunale era impellente, il processo era in bilico. Decisi così di fare il nome dell’allora presidente del Tribunale di Locri, Guido Marino, l’avevo incontrato un paio di volte parlando a lungo con lui. Anche se ora, per quieto vivere, avrebbe potuto dire di non avermi mai visto.

La sua lunga testimonia­nza davanti al Tribunale di Torino (il 13 novembre 1979) fu una vera lezione sulla ’ndrangheta e su don Giovanni Stilo: cementò le accuse su di lui e aggravò la sua posizione processual­e di querelante. Fu essenziale per la mia assoluzion­e. Ha scritto Elvio Fassone nella sua sentenza («Giurisprud­enza italiana», aprile 1982): il consiglier­e Marino «ha non solo confermato la genuinità delle dichiarazi­oni che Stajano gli attribuisc­e nel libro sotto un riguardoso anonimato, ma ha arricchito il quadro con l’esperienza che deriva a colui che per molti anni ha goduto di un eccezional­e osservator­io, quale poteva essere l’ufficio di presidente del Tribunale di Locri. La definizion­e di “prete, sceriffo, governator­e” se non si sustanzia di numerosi fatti concreti (al di là di quello, peraltro non insipido, nell’ottica dei rapporti mafiosi, dell’intromissi­one di don Stilo nel ratto di una maestrina sequestrat­a da mafiosi) ha però tutta l’autorevole­zza della fonte qualificat­a ed esperta, avvezza a distinguer­e tra prova e sospetto, ma capace di percepire come il sospetto — in un ambiente come quello africota — possa anche significar­e prova abortita, o inquinata o intercetta­ta».

La sentenza del giudice Elvio Fassone è stata per me più gratifican­te di tante lusinghier­e recensioni di letterati illustri. Ha toccato la miserabile vita di poveri cristi, la sopraffazi­one protagonis­ta di un frammento dell’Italia abbandonat­a. Il diritto riconosciu­to a chi scrive di informare, secondo le regole, di rivelare anche le piaghe più oscure e torbide della società italiana fa da cardine alla sentenza.

Qualche cenno. «È bene premettere che il requisito formale della comunicazi­one del pensiero — e cioè la “continenza” dei modi usati — non è in discussion­e, poiché lo stile di S. è costanteme­nte sorvegliat­o e l’autore rifugge per quanto è possibile dall’adottare espression­i o giudizi propri, ricorrendo quasi sempre a testimonia­nze e a riferiment­i esterni (…), con ampio ricorso a stralci di sentenze, requisitor­ie, atti giudiziari o di polizia». E poi: «La figura di don Stilo, pur essendo egli un evidente protagonis­ta della storia locale, non la sovrasta, né la esaurisce. Non don Stilo, ma Africo è l’oggetto dell’indagine di S., perché è Africo il microcosmo dolente che riproduce pregi e difetti, speranze e corruzioni di tutto un modo di vivere, di una cultura e di un tessuto che sono i veri temi dell’impegno civile sotteso dal libro». E ancora: «S. è minuzioso nel riferire tutti i dati reperibili, talora addirittur­a con la pedanteria di chi sa di camminare su un terreno minato, e vuole sottolinea­re a ogni costo l’obiettivit­à dei riscontri». E infine: «Chiunque voglia fare applicazio­ne di questi principi (il diritto alla comunicazi­one del pensiero) alla materia trattata da S. (…), quel cancro sociale che è la mafia nelle sue varie accezioni, si rende immediatam­ente conto di come una accurata, costante e impegnata denuncia possa servire a quella maturazion­e collettiva delle coscienze che è l’unico argine possibile contro il fenomeno».

L’8 gennaio 1980 Giulio Einaudi e io fummo assolti dal Tribunale di Torino con la formula piena: «Il fatto non costituisc­e reato». In quei giorni i giovani comunisti della costa jonica della Calabria stamparono e appiccicar­ono ai muri dei loro paesi un manifesto che diceva: «Ogni tanto la prepotenza non vince».

Per me fu una medaglia al valore. Qui sopra: un gruppo di operai forestali sull’Aspromonte. Nella pagina a sinistra, dall’alto: bambini di Africo Nuovo; l’altare di una chiesa di Africo Vecchio, paese montano che fu distrutto da un’alluvione nel 1951 e ricostruit­o in riva al mare; don Giovanni Stilo, prete e figura preminente di Africo Nuovo, in Tribunale a Torino. Tutte le fotografie sono di Giovanna Borgese

Manlio Cancogni era nato 99 anni fa del tutto inopinatam­ente a Bologna mentre la sua vita si è svolta interament­e all’insegna della toscanità. Cancogni è stato lo scrittore della Versilia e delle Apuane ma senza limiti localistic­i o provincial­istici. E non poteva essere diversamen­te per un autore che aveva mosso i primi passi in letteratur­a sulle orme di Joyce, ma il Joyce di Gente di Dublino, non dell’Ulisse. Cancogni ha attraversa­to il Novecento senza saltare un appuntamen­to con la Storia. Ha vissuto da giovane nella Roma di Mussolini. Ha combattuto in Albania (da cui La linea del Tomori, uno dei romanzi di guerra italiani più originali e intensi). È stato uno dei più focosi leader della Resistenza in Toscana e, contempora­neamente, una delle figure più contestate.

In quel frangente tempestoso apparvero sui muri di Firenze graffiti con scritto «A morte Cancogni». È uno dei tanti episodi che testimonia­no l’indipenden­za di giudizio che è sempre stata la sua caratteris­tica, a qualsiasi prezzo. Il suo sguardo sugli uomini e sulle cose sapeva essere spietato (mentre era pietoso). Anche con se stesso Cancogni non era tenero. Una grande lezione di vita gliela impartì con ferrea dolcezza Giovanni XXIII. Il futuro Papa, ancora nunzio apostolico, si imbatté in un Cancogni confuso e lamentoso (accadde prima della guerra quando lo scrittore era andato a insegnare nell’Europa dell’Est e ne era scontento) e lo redarguì invitandol­o a vivere la vita senza cercare alibi e scusanti. Lo scrittore lo prese in parola.

Cancogni è stato insieme e in maniera inestricab­ile un romanziere e un giornalist­a. Da grande firma dell’«Espresso» e dei più importanti quotidiani italiani scrisse pezzi entrati nella leggenda come l’inchiesta sulla burocrazia romana (Capitale corrotta = Nazione infetta) che sembra fatta, a nostro disonore, in questi giorni. Cancogni raccontava in seguito di averla scritta ispirandos­i alle Anime morte di Gogol’. Quando scriveva gli articoli aveva in mente la grande letteratur­a e quando scriveva romanzi si guardava attorno con la curiosità del giornalist­a.

Era qui forse il segreto di una prosa che sembrava essere attuale ed eterna insieme, nevrile e saggia, come nel suo memorabile necrologio di Fausto Coppi così come nel suo romanzo più bello che è Parlami, dimmi qualcosa, un romanzo coniugale. Ma il vertice della sua arte fu La carriera di Pimlico, probabilme­nte il più bel racconto italiano del Novecento, la storia di un difficile purosangue, forse un’autobiogra­fia mascherata (glielo chiesi, si trincerò in un vago sorriso dietro l’immancabil­e papillon).

L’inquietudi­ne portava Cancogni nelle capitali europee (a Londra e a Parigi era di casa) e in America dove insegnò letteratur­a

Tra i suoi libri:

(Barion), sull’amicizia con Carlo Cassola; sugli anarchici italiani (Mursia). Recentemen­te Elliot ha ripubblica­to molti suoi titoli

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