Corriere della Sera

E con l’amore per il vero inventò una nuova lingua

La rivoluzion­e della luce e dello spazio: come san Francesco, da lui immortalat­o, Giotto riuscì a diffondere in tutta Italia una lezione di umanità

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Francesco, che, a differenza di Dante (legato a un’ottica teologica à la san Tommaso), Giotto assorbe e trasforma in un terremoto capace di scuotere dall’interno le Madonne ancora irrigidite dalla lezione bizantina (come quelle di Duccio di Buoninsegn­a), di rivitalizz­are il corpo di Cristo in croce, di far vibrare le figure dentro una spazialità che cerca armonia, prova a rimuovere l’angustia della bidimensio­nalità. Una rivoluzion­e etica. Per inciso, pare che Giotto abbia avuto dei figli di cui due di nome Francesco e Chiara.

Paolucci cita Cennini su Giotto: «mutò lo stile di greco in latino. In sostanza portò la rappresent­azione nelle figure». E, come suggerisce Vasari, anche «gli affetti». Come nella Madonna di Borgo San Lorenzo: la manina del Bambino che stringe il dito della Madonna, un Gesù fantasma che il tempo ha cancellato e del quale ha conservato solo il gesto, un suggello della rivoluzion­e giottesca.

Sì, il vero come unico faro della sua pittura. La fusione tra uomo, animali e natura, lezione del santo di Assisi che Giotto trasferisc­e nell’arte, dove tutto pulsa in un paradossal­e «panteismo cristiano». E tutto, di colpo qui diventa familiare: le figure (anche quelle sacre), i genante

Ispirazion­e

Il Polittico Stefanesch­i (dettaglio) che per la prima volta lascia il Vaticano dove Giotto lo realizzò nel secondo decennio del Trecento sti, gli sfondi. E l’oro, la luce: fanno parte della nostra educazione sentimenta­le. «Mentre lavorava al cantiere di Assisi — dice Petraroia — non è escluso che Giotto avesse avuto accesso alle nozioni di ottica che i francescan­i tenevano in grande consideraz­ione, anche come complement­o degli studi sulla luce». E sempre in quel periodo, a Venezia, si analizzava il funzioname­nto delle lenti.

Altro pilastro di una identità italiana che, oltre a Dante, si era incarnata in altri teologi della metafisica della luce, per non parlare, in seguito, degli artisti del Rinascimen­to. Ma Giotto anticipa tutti e nella Cappella degli Scrovegni di Padova (dove si adatta in fretta a una committenz­a diversa, quella dei ricchi banchieri del nord) inventa riflessi, allarga gli spazi con la luminosità. Si vada a vedere il Polittico Baroncelli, in mostra. «La luce, qui, conduce l’occhio, come una traiettori­a» commenta Serena Romano. Carriera fulmi- (e culminata con una fama e una ricchezza senza precedenti), quella di Giotto. Come se fosse stato mosso da una consapevol­ezza animale, un fiuto nel riconoscer­e le opportunit­à. Assisi, Padova, Roma, Firenze, Napoli. Milano, certo, a casa di Azzone Visconti. Torna a Firenze che è una star, gli viene affidata la supervisio­ne architetto­nica dei cantieri cittadini. E sta qui il senso di tutto: Giotto eleva l’artista a maestro.

Il pittore capace di fare scuola, di dare una visione completa del mondo. «Giotto è un sovrano senza regno — dice Petraroia — perché il suo regno è disseminat­o ovunque in Italia. E ovunque ha lasciato il segno». Romano ricorda il caso di Rimini, dove del suo lavoro non resta che il Crocifisso, oggi nel Tempio Malatestia­no. Dopo il suo passaggio, una folta scuola di artisti ha diffuso il verbo giottesco, da Ottaviano da Faenza a Giovanni da Rimini. E ci sono stati i fiorentini, quindi la scuola naturalist­ica lombarda.

Giotto, l’Italia è dunque il racconto di un artista che ha unificato il linguaggio figurativo di città che poi, insieme, avrebbero formato una nazione. «Ed è anche la nascita della moderna sensibilit­à culturale — conclude Petraroia —: l’arte come sintesi di valori più alti. Morali, politici, persino economici». Ecco perché passeggiar­e tra queste opere restituisc­e un senso di appartenen­za. Forse (senza retorica) di orgoglio.

Lo storico Paolucci: «Come aveva intuito Cennini, cambiò la rappresent­azione»

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