Quel dialogo fecondo con l’antico e il gotico
Guardate il trono della Madonna di San Giorgio alla Costa (1288), e il gesto del Bambino della Madonna del Polittico di Badia (1295-1300) e, ancora, nel polittico di Santa Reparata (1310), lo spazio della Annunciazione o quello del Battista tra due grandi quinte di rocce; da ultimo guardate le grandi, dense forme dei santi del Polittico Stefaneschi. Giotto dunque è consapevole dei volumi, certo, ma anche dei gesti e della passione che questi gesti trasmettono. Forse sta qui una possibile chiave per leggere questa bella mostra che concentra, in un gruppo di pezzi altissimi, il fuoco di un racconto che, nel 2009, si era dilatato alla officina e al contesto nella rassegna Giotto e il Trecento curata da Alessandro Tomei a Roma. Torniamo al nuovissimo discorso che l’artista fiorentino propone e a due tesi critiche che ancora oggi si confrontano: da una parte le radici della rivoluzione di Giotto vengono lette nel contesto della civiltà gotica europea, dall’altra sono collegate all’antico. Cesare Gnudi, nel 1982, si domandava: «Per Giotto potrà bastare il precedente dell’arte dei Pisani e di Arnolfo a spiegare il determinante elemento gotico della sua cultura e del suo stile, o avrà anch’egli avuto di quel mondo una cognizione diretta?» e lo studioso allude alla scultura gotica prima del 1250 in Ile de France, da Reims alla Sainte Chapelle, allo Jubé di Bourges dove ritrova la stessa grandiosa messa in scena del Giotto agli Scrovegni (1303-1305). Serena Romano, in un importante volume del 2008, collega all’antico l’invenzione di Giotto: «Quello che Giotto ha visto e intuito è il sistema dei rilievi ufficiali della Roma augustea, flavia, adrianea, aureliana». Dunque due letture della rivoluzione del fiorentino Giotto che, come giustamente sottolinea la studiosa, muta il proprio dipingere dialogando proprio con la pittura e la scultura romana. Fanno dunque riflettere le figure spaziose delle pale di fiorentino.
Come ha dimostrato Massimo Cacciari in un suo bellissimo saggio intitolato Doppio ritratto, il tema «Dante e Giotto» può essere tutt’altro che una sterile e generica esercitazione scolastica. Ogni aquila ha la sua vetta, come dice il proverbio, ma è pure vero che queste due aquile eccezionali vedevano le stesse cose, e si spartivano le stesse prede.
Lasciando da parte le discussioni sull’autenticità della firma e sulla collaborazione dei discepoli, quello strabiliante capolavoro che è il Polittico Baroncelli vale più di mille biblioteche per comprendere il clima mentale, la temperatura fantastica e filosofica del Paradiso.
Ma, come in tutti i rapporti davvero significativi, ci troviamo di fronte a una circolarità, perché se Giotto «spiega» molto di Dante, quest’ultimo, definito dal vecchio Vasari «coetaneo e amico suo grandissimo», gli rende servizi non meno preziosi. Bisogna aggiungere che entrambi hanno forgiato quasi dal nulla un linguaggio che, pur intriso di umanità e natura più di ogni altro nel loro tempo, è stato capace di spingersi fino al limite, al bordo dell’indicibile e dell’invisibile.
Nel Polittico Baroncelli (tra i pezzi in mostra a Milano, ndr) questo limite consiste nell’immaginare una visione paradisiaca, che si accompagna a uno stato di perfetta beatitudine, tale che solo gli angeli e i santi possono parteciparvi. Da destra e da sinistra, le due schiere simmetriche contemplano l’incoronazione della Vergine. Tutto, a partire dal fatto che gli angeli sono forniti di strumenti musicali, concorre a suggerire
L’autore
Emanuele Trevi (1964) è scrittore e critico letterario. È arrivato secondo al Premio Strega 2012 con «Qualcosa di scritto» (Ponte alle Grazie»), «Il viaggio iniziatico» (Laterza 2013). In basso, il Polittico Baroncelli, dipinto nel 1330 circa
È consapevole dei volumi, dei gesti e della passione che questi muovono