La scommessa del ricambio generazionale
Ildirettore del festival, Alberto Barbera, parla esplicitamente di «scommesse», della necessità di «trovare i maestri di domani» dopo che la generazione su cui si era formato lui e tanti cinefili come lui «ha dato segni di appannamento». O per lo meno di una qualità (troppo) altalenante. Cannes quest’anno ha sollevato più di una protesta per non aver messo in concorso «i soliti noti» e Venezia sembra decisa a battere la strada del rinnovamento con ancor più decisione. Il rischio, in questi casi, è di farsi prendere da qualche abbaglio, di scambiare la tecnica per talento, le intenzioni per i risultati. Conoscendo la serietà sabauda del direttore e la militanza cinefila di alcuni dei suoi collaboratori siamo disposti a vedere il bicchiere mezzo pieno. Come sempre prima che il festival inizi si accavallano supposizioni. Alcuni titoli (per esempio quello di Amos Gitai sull’ultimo giorno di vita di Rabin o quello di Cary Fukunaga sui bambini soldati in Africa) arrivano al Lido accompagnati da molte speranze. Certe «soffiate» francesi invitano a scommettere su Giannoli e la sua improbabile cantante lirica. Il film buddistacinofilo di Laurie Anderson, Heart of the Dog, sarà comunque un evento, per non parlare dei «grandi vecchi» Sokurov e Skolimowski. I quattro registi italiani in gara dimostrano secondo il direttore Barbera «la vitalità e la varietà» della produzione nazionale e siamo pronti a prenderlo in parola (anche se con qualche dubbio in più…). E poi c’è tutto il resto, un fuori concorso dove i blockbuster hollywoodiani fanno la parte del leone, una sezione Orizzonti dove spesso ci sono le vere sorprese e una sezione Venezia Classici che regala ben venti capolavori restaurati. Se tutto questo produrrà soltanto una allegra e variopinta passerella di titoli e star o darà forma a un festival che sappia trovare il senso profondo della propria necessità, lo scopriremo solo alla fine delle proiezioni. Per intanto, le vere novità le ha messe a segno il ministro Franceschini modificando la legge (che porta a tre i mandati consecutivi dei presidenti) e favorendo il lavoro dei direttori in scadenza che possono essere prorogati di dodici mesi per non trovarsi a lavorare l’anno prossimo con l’acqua alla gola. Per una volta, cioè, la politica ha spianato la strada a chi deve lavorare per tener alta l’immagine della Biennale. Adesso spetta al presidente, al consiglio e ai direttori dimostrare che meritano questa apertura di fiducia.