Corriere della Sera

L’angoscia di Mattarella e il «dovere morale»

- Di Marzio Breda

Un’immagine con una carica d’angoscia insopporta­bile, quella del bimbo siriano il cui corpicino ormai rigido è trascinato dal mare sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Sergio Mattarella l’osserva a lungo, in albergo, sfogliando i giornali e poi buttandoli da una parte con un sospiro, mentre si prepara ad affrontare una seconda giornata di visita a Venezia. E per l’intera mattina sembra non riuscire a togliersel­a dalla mente dato che ora si chiede se, magari per effetto di questo nuovo choc, la politica dell’Unione Europea riuscirà a darsi una svolta. Se lo domanda alla sua maniera, con poche parole che nascondono però una speranza. Infatti, dice, «l’evidenza delle tragedie cui si assiste ha una forza di persuasion­e molto alta». È l’interrogat­ivo che si pone tutto il mondo, davanti a quel pugno nello stomaco. Un clic da associare alle infinite altre foto che fissano momenti di morte e dolore di troppi migranti. E di umiliazion­e, anche, come per i numeri identifica­tivi scritti sulle braccia di questa gente in fuga e che ricordano i tatuaggi nazisti al tempo della Shoah. Ma qualcosa sembra muoversi davvero, adesso. A partire dal duo Merkel-Hollande, i quali sostengono che sì, «intervenir­e è ormai un dovere morale» (e sembrano pronti a rimuovere il trattato di Dublino). Sono le stesse parole pronunciat­e tante volte dal capo dello Stato, osserva qualche consiglier­e del Quirinale. Vero. Mattarella aveva esortato entrambi, e insieme a loro Junker, a cambiare paradigma, davanti al «dramma epocale» con cui dobbiamo fare i conti. Aveva rammentato i 10-12 milioni di profughi prodotti dalla Seconda guerra mondiale. Aveva avvertito che sulla direttrice balcanica si sarebbero messe in movimento molte più persone di quante attraversi­no il Canale di Sicilia, e guarda caso sono tre volte tante. Aveva provato a spegnere le paure di chi si sente assediato, evocando i valori della civiltà europea. Temi che approfondi­rà intervenen­do domani al forum Ambrosetti di Cernobbio.

Dolore

La disperazio­ne di Abdullah Kurdi. In una notte ha perso la moglie e i due figli, annegati nel Mar Egeo

La vicenda

La famiglia Kurdi — il padre Abdullah, la moglie Rehan e i due figli di 3 e 5 anni Aylan e Galip — aveva lasciato un anno fa Kobane, in Siria

Volevano raggiunger­e, a Vancouver, in Canada, la sorella di Abdullah, che lì lavora come parrucchie­ra

Le complessit­à e le lungaggini burocratic­he hanno spinto i quattro a cercare di raggiunger­e la Grecia via mare da Bodrum, in Turchia. Nella traversata sono morti la moglie e i due figli di Abdullah

Abdullah Kurdi è un uomo che risale la rotta dei disperati. Non gli interessa più arrivare in Grecia e da lì in Canada, a Vancouver, dove lo aspettava la sorella parrucchie­ra e una nuova vita. Abdullah va dove gli altri scappano. Solo questo vuole: tornare in Siria, a Kobane in guerra, alla città di macerie da cui è fuggito un anno fa. Anche questa volta viaggerà con i figli, Aylan e Galip, 3 e 5 anni. «Cosa c’è di più bello, ha detto ieri, di due figli che ti svegliano la mattina per giocare?». Viaggerà accanto a loro e alla moglie trentacinq­uenne, Rehan. E non sarà un calvario come l’andata. Niente più controlli, confini, aguzzini, sete, umiliazion­i. Sarà un ritorno confortevo­le, in aereo, con funzionari premurosi e occhi bassi al loro passaggio: Istanbul, Suruc, la frontiera, casa, il cimitero.

«Voglio solo seppellirl­i e restare con loro». Lo dice nelle interviste, a voce bassa sotto un sole crudele, sotto gli alberi che ingentilis­cono l’obitorio di Bodrum. Nel corso principale di quella città, non lontano dai resort dei turisti, dalla piscina dove due mesi fa faceva il bagno mio nipote Federico, nei negozi turchi questa estate sono spuntati salvagenti, giubbetti arancioni, camere d’aria. Come fossero ciabatte e secchielli. È l’economia spicciola intorno ai migranti. Alcuni si attrezzano, altri pregano il mare di essere come un olio.

L’altra notte invece era mosso. Le ondate, il trafficant­e si butta, l’imbarcazio­ne si ribalta. Insieme Una foto di qualche tempo fa dei due fratelli annegati. A sinistra il piccolo Aylan, a destra Galip «Ho cercato di salvarli» ripete ora il padre. «Ho perso tutto». Un pescatore ha trovato il corpo di Aylan come una bottiglia sul bagnasciug­a, la testa rivolta al mare, a Kos, al futuro. Aylan nato in tempo di guerra, il bambino oggi più famoso del mondo. Fa venire in mente che quel conflitto è cominciato proprio contro i bambini — marzo 2011 — con l’attacco dei governativ­i ai piccoli siriani che disegnavan­o graffiti di protesta nelle strade di Daraa.

Quella di Aylan e Galip, il cognome

lo dice, era una famiglia curda. Erano scappati da Kobane con il sogno di arrivare oltre l’oceano. Sull’altra sponda dell’America. A Vancouver la sorella di Abdallah, Teema, vive da 20 anni. La zia parrucchie­ra ieri ha raccontato la vana odissea per ottenere i visti, il diritto d’asilo. Aveva parlato con un deputato dell’opposizion­e, che aveva consegnato la pratica al ministro dell’Immigrazio­ne Chris Alexander, il quale aveva promesso di far entrare 10 mila rifugiati siriani (alla fine di luglio erano il 10%). Teema ha mandato soldi per l’alloggio in Turchia, i vestiti dei bambini. Un sordo rimpallo di no e di burocrazia, dalla Turchia all’Onu al governo canadese, li ha portati l’altra notte sulla spiaggia di Bodrum. Alla tv canadese Teema in lacrime spiega che la cognata Rehan aveva paura, non voleva partire. Parla dei nipoti. «Due settimane fa Galip mi ha detto al telefono: “Zia mi compri una bicicletta?”. Ho detto a mio fratello: “Ti manderò del denaro in più. La bici la vogliono tutti i bambini”».

Le scarpe, i vestiti, domani la bici. Quel bambino morto sulla spiaggia «aveva belle scarpe ed era vestito bene: si vede che i suoi genitori non scappavano dalla guerra, volevano la bella vita in Europa». Così ha scritto qualcuno su Twitter. Miserie da dimenticar­e.

Quel padre che ora risale la rotta dei profughi verso l’inferno siriano, che porta la famiglia al cimitero di Kobane, addosso ha il senso di colpa che marchia i sopravviss­uti. E il nostro? Sarebbe una consolazio­ne se la guerra iniziata con la persecuzio­ne di piccoli siriani cominciass­e a finire con il sacrificio di due fratelli, di Aylan con le belle scarpe e il capo rivolto verso il nostro mare.

@mikele_farina

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