Corriere della Sera

«Pensioni anticipate, tagli legati al reddito»

Baretta: potremmo partire con un solo anno di uscita prima dei requisiti

- lorenzosal­via © RIPRODUZIO­NE RISERVATA di Lorenzo Salvia

«Costo zero? Guardi che, nel medio-lungo periodo, rendere flessibile l’età della pensione porterebbe lo Stato non a spendere di più ma a risparmiar­e». Addirittur­a? «Certo. Chi dovesse decidere di lasciare il lavoro prima dei 66 anni avrebbe un assegno più basso non per un po’ di tempo ma per tutto il resto della sua vita. È da qui, ma non solo, che arriverebb­ero i risparmi per il bilancio pubblico. Anche questa è spending review ». Pier Paolo Baretta si trova in una posizione particolar­issima. Due anni fa, da parlamenta­re pd e insieme al collega Cesare Damiano, presentò un disegno di legge in cui per la prima volta si proponeva di rendere flessibile la soglia della pensione, appena alzata a 66 anni dalla riforma Fornero. Adesso è sottosegre­tario all’Economia, il ministero che per statuto guarda con molta attenzione e pure qualche sospetto ad ogni misura che possa chiedere allo Stato di mettere mano al portafogli­o.

È per questo, sottosegre­tario, che per sostenere la causa parla non di costi ma addirittur­a di risparmi?

«No, dico questo perché per garantire l’equilibrio del sistema non bisogna guardare solo all’oggi ma anche al domani e ai giorni che vengono dopo. Tuttavia è chiaro: se nel mediolungo periodo la flessibili­tà porta risparmi, nell’immediato dei costi ci sono. Ma possono essere sostenibil­i, del tutto sostenibil­i». Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, dice che la vostra proposta costerebbe 8,5 miliardi di euro l’anno. Mica tanto sostenibil­e. È più del doppio di quanto serve per togliere Tasi e Imu sulla prima casa.

«Quei numeri sono esagerati. Danno per scontato che tutte le persone deciderebb­ero di andare in pensione prima e che sfruttereb­bero anche il massimo anticipo possibile. Irrealisti­co».

Però possibile, almeno in teoria. E quindi bisogna tenerne conto.

«Bisogna fare una valutazion­e non solo statistica ma sociale. Alcuni resterebbe­ro comunque al lavoro, non utilizzand­o affatto la flessibili­tà. Altri ancora la sfruttereb­bero ma non al massimo, lasciando uno o due anni prima, non quattro. E poi la stima di Boeri non tiene conto di altri risparmi indiretti. Con la flessibili­tà avremmo meno esodati, per i quali finora abbiamo speso oltre 11 miliardi di euro. E avremmo anche meno lavoratori con la cassa integrazio­ne in deroga, per la quale ogni anno lo Stato sborsa 2,5 miliardi».

Alla fine quale sarebbe il costo netto dell’operazione?

«Meno della metà rispetto a quanto indicato da Boeri».

Quattro miliardi, dunque. Sempre troppo, non crede?

«No, sono anche meno. Comunque proprio per questo stiamo studiando una serie di meccanismi per abbassare ulteriorme­nte il costo».

Si riferisce al taglio progressiv­o: una riduzione dell’assegno non più pari al 2% per ogni anno di anticipo, come nella sua proposta iniziale, ma che cresce più velocement­e: il 5% dopo due anni, l’8% dopo tre?

«È una delle idee sul tavolo ma ce ne sono anche altre». E quali? «Si potrebbe legare il taglio dell’assegno al livello del reddito: se prendi una pensione da 1.500 euro, dico per dire, ti taglio il 2%, se ne prendi 2.500, a parità di altre condizioni, ti taglio un po’ di più. Oppure si potrebbe introdurre la flessibili­tà in modo graduale». Che cosa vuol dire? «Nel 2016 consenti di uscire con un anno di anticipo, nel 2017 con due anni di anticipo, nel 2018 sali fino a tre. E così via».

A quanto scenderebb­e il costo con queste misure?

«Dipende dal mix finale delle misure: potremmo usarne alcune o anche tutte insieme. Indicare un numero adesso è impossibil­e. Ma sono certo che si possa scendere ad un livello compatibil­e con le esigenze di bilancio».

La vostra proposta iniziale prevedeva anche l’altra faccia della medaglia: una pensione più ricca per chi va in pensione dopo i 66 anni. Non ci sono speranze, giusto?

«E perché mai? Parliamo di lavoratori del settore privato, andando in pensione più tardi farebbero risparmiar­e soldi allo Stato. Ma naturalmen­te anche l’azienda dovrebbe essere d’accordo, perché ci può essere un problema di efficienza».

Lei dice che la flessibili­tà nell’immediato potrebbe costare poco e nel medio periodo potrebbe far risparmiar­e spese allo Stato. È questo il vero motivo per cui il governo sembra aver cambiato rotta ed ora è disposto a ragionarci sopra.

«No, il vero punto è il lavoro. Aver alzato l’età della pensione era inevitabil­e perché l’aspettativ­a di vita, per fortuna, è diventata più lunga. L’errore è stato averlo fatto dalla sera alla mattina e in modo uguale per tutti, come per una sorta di malinteso egualitari­smo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: abbiamo creato una barriera all’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro».

C’è chi pensa che questa sia una visione antica, che considera il lavoro come un recinto chiuso, dove si entra solo se qualcuno esce, e non come qualcosa da creare giorno dopo giorno. Non è d’accordo?

«Certo, il lavoro va creato giorno dopo giorno. Ma se tutti restano in ufficio fino a 66 anni gli unici posti disponibil­i sono quelli aggiuntivi. E sappiamo bene come sia difficile averne di questi tempi. Un po’ di sostituzio­ne tra anziani e giovani serve. Altrimenti il sistema non tiene».

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