Corriere della Sera

Ma a che cosa sono serviti i nostri Erasmus?

- Nathania Zevi

Caro direttore, mi chiamo Nathania Zevi e ho trent’anni. Faccio, non senza difficoltà e imprevisti, il lavoro che amo, ho un figlio, una famiglia allargata e molti altri sogni. Circa otto anni fa ho trascorso un semestre universita­rio a Madrid nell’ambito del programma Erasmus. Mesi meraviglio­si. Notti brave, incontri con colleghi provenient­i da ogni Paese europeo, voglia di conoscersi, confrontar­si, parlare l’uno la lingua dell’altro. Un’esperienza unica, che ritengo cruciale nella formazione della mia coscienza e della mia identità. Ebbene, direttore, di fronte alle immagini sconvolgen­ti quanto quotidiane delle nostre coste, dei nostri mari, dei nostri bambini che affogano con le mani fredde e il cuore gelato non posso fare a meno di chiedermi: in che modo siamo stati cresciuti per essere la «generazion­e Erasmus»? A cosa sono serviti gli «appartamen­ti spagnoli»? Per quale scopo e con quale obiettivo abbiamo stanziato i fondi necessari a mandarci, giovani e pieni di speranza, in Europa? Abbiamo forse investito tanto per trovarci oggi a essere cittadini e attori di un’ Europa insensibil­e, ipocrita, chiusa, razzista e in taluni casi forse assassina? Siamo davvero andati solo per poi raccontare agli amici a casa delle tapas mangiate, dei troppi cocktail bevuti o delle nostre avventure amorose internazio­nali? Cosa facciamo oggi delle lingue che abbiamo imparato? E cosa con gli amici ungheresi o inglesi che sentiamo via Skype o andiamo a trovare con aerei low cost? Cosa ne è di tutta questa ricchezza? È il momento di decidere se siamo un fallimento o rappresent­iamo un’opportunit­à. Nel primo caso, appurata la nostra incapacità di essere generazion­e ponte e veicolo di un’Europa funzionant­e, non sarebbe meglio devolvere i fondi che il programma Erasmus e altri affini non hanno saputo sfruttare per creare una generazion­e europea degna di questo nome a chi ne ha più bisogno? Chi dice che la mia generazion­e sta solo subendo questa situazione sbaglia. A trent’anni o sei parte della soluzione o sei il problema. La mia religione, ebraica, impone di aiutare i nostri vicini. La nostra storia di perseguita­ti, migranti, profughi, ci guida a una memoria che deve diventare azione. Se quindi — come spero — la nostra esperienza europea vale qualcosa; come trentenne, madre, ebrea, ma soprattutt­o come individuo, desidero agire e mi aspetto che anche il nostro governo, i nostri rappresent­anti europei e il nostro presidente Matteo Renzi, nella sua posizione istituzion­ale, generazion­ale, ma anche come padre, cattolico e individuo ci guidi nel trasformar­e le nostre azioni individual­i (l’Italia è patria di populismi e razzismi ma anche di generosità infinite) in un grande movimento generazion­ale. È il nostro momento, altrimenti l’Erasmus e l’Europa senza confini non hanno avuto e non hanno alcun significat­o.

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