La vicenda
Joaquín Guzmán Loera, boss di Sinaloa, è evaso l’11 luglio scorso (sotto: l’arresto nel 2014) crede alla versione ufficiale della fuga, con il tunnel scavato dalla cella fino alla casupola nel campo vicino al penitenziario. Un lavoro che sarebbe durato mesi, con tonnellate di terra portate via da un team di minatori fidatissimi, scavatori aiutati da complicità interne e dal fatto che le prigioni di massima sicurezza dove è stato rinchiuso El Chapo erano identiche.
Molti pensano che il boss sia uscito dalla porta principale, al massimo da quella secondaria. Magari grazie ad un patto, neppure troppo segreto, con l’esecutivo dello screditato presidente Peña Nieto.
L’idea è che Guzman sia stato fatto uscire per reimporre la Pax Sinaolense. A colpi di Kalashnikov e persuasione il boss dovrebbe mettere al passo le bande rivali che, nel frattempo, si sono moltiplicate. Gli ultimi rapporti indicano la presenza di 7-8 cartelli suddivisi in una realtà fluida dove agiscono non meno di 48 gruppi o sottogruppi. Uno scenario alla siriana. Con alleanze e faide che si fanno e disfano nell’arco di poche settimane. A volte meno. Contano i capetti non il network. Ci si ammazzata di brutto in Tamaulipas, ma non scherzano neppure in Bassa California, con una lotta spietata per il controllo del mercato. Tra la primavera e l’estate si è fatto largo JaliscoNuova Generación, formazione che a tratti somiglia ai movimenti mediorientali. Per capacità militari e uso dei social network. Youtube, Facebook, Twitter sono le piattaforme della propaganda in stile Isis.
I messaggi sul web fanno scena, ma rappresentano una traccia per gli investigatori. Per questo è strano che El Chapo abbia permesso al figlio quell’imprudenza da ragazzino. Sempre che quel mezzo volto ritratto dalla foto sia davvero il Nemico numero uno.
@guidoolimpio