Corriere della Sera

Maria Corti, cent’anni di incantesim­i

Svariava da Guido Cavalcanti al rock. La sua energia contagiosa ha prodotto il Fondo manoscritt­i

- Di Paolo Di Stefano

Pensare che Maria Corti è nata cent’anni fa, il 7 settembre 1915, pochi mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia: pensare che è passata un’era geologica, eppure sentirla ancora viva, vitale, attiva tra noi. Per i suoi allievi e per i suoi amici, Maria non se n’è mai andata davvero, anche se ci ha lasciati la notte del 22 febbraio 2002, carica di medicine per la sua artrite reumatoide, assalita da una crisi respirator­ia durante un’influenza micidiale. Pare che nel pomeriggio abbia detto alla sua governante filippina, Bambi: «È finito l’incantesim­o, andiamo in ospedale». E dopo qualche ora è morta dolcemente al San Paolo di Milano. La mattina mi telefonò Cesare Segre, che era stato il suo compagno per anni. Mi disse di andare a farle visita all’obitorio: «Vai, è sola». Era sabato, andai sotto la pioggia all’altro capo di Milano. Il lunedì, passai a prendere Segre e sua moglie Marisa per andare al funerale a Pavia: era un tipo di poche parole e di profondi silenzi, Cesare, ma in quel viaggio, chiuso nel suo cappotto con il collo di pelliccia, parlò ancora meno del solito, si limitò a indicarmi la strada più breve, conoscendo­la benissimo visto che per decenni aveva viaggiato da Milano per fare lezione nella stessa università della Corti.

Quando arrivammo, con il freddo che faceva e con il Borsalino grigio in testa, mi disse soltanto: «Tu sei ancora giovane, ma io sto perdendo tutti i miei amici, pensa come ci si sente». In effetti, non lo sapevo ancora come ci sente, l’avrei saputo più tardi.

Nel cortile del Cinquecent­o, a due passi dal Fondo manoscritt­i che negli ultimi anni era stato la creatura più cara di Maria, fu un funerale con tante persone e insieme molto raccolto: Dante Isella, che aveva avuto diverse polemiche filologich­e con lei (Fenoglio, Montale...), era lì anche se faceva fatica a camminare, avendo avuto un incidente in casa. Ricordo che si tolse il cappello per mostrarmi la cicatrice alla testa. C’era Umberto Eco, che con la Corti, con Paolo Volponi, Antonio Porta e altri aveva fondato il mensile di battaglia culturale e di critica «Alfabeta» e che parlò dello spirito da «ragazzina» di Maria, del suo entusiasmo vitale nella ricerca; c’erano Gianluigi Beccaria e Bice Mortara Garavelli venuti da Torino, più giovani allievi dello stesso suo maestro (di Maria Corti, ma anche di Segre): il linguista Benvenuto Terracini. Non c’era il grande filologo, solitario e fraterno, Cesare Bozzetti, della stessa scuola pavese, perché era morto tre anni prima: ma era come se fosse presente, c’erano i suoi tanti fedelissim­i allievi, un paio dei quali erano già in cattedra.

C’erano gli allievi della Corti che lei chiamava ancora «figlioli» e «figliole» (specialmen­te quando aveva da sgridarli o da spronarli) e che già insegnavan­o a Pavia: Angelo Stella, Maria Antonietta Grignani, Silvia Isella. E molti altri. Ricordo che la commozione interruppe Stella quando provò a dire che Maria era spirata serenament­e.

C’era anche Mauro Bersani, che si era laureato con lei all’inizio degli anni Ottanta ed era allora (come oggi) editor einaudiano; c’era il ticinese Fabio Pusterla, anche lui laureato in Storia della lingua e tenuto a battesimo dalla Corti come poeta. In un angolo c’era il vecchio amico Roberto Cerati, storico direttore commercial­e dell’Einaudi; c’era Paolo Mauri della «Repubblica», il quotidiano per cui aveva sempre collaborat­o; non c’era Giorgio Orelli perché con Mimma, sua moglie, sarebbe andato il giorno dopo a Pellio in valle Intelvi (il paese della madre) per salutare l’amica; c’era Peppo Pontiggia, che avrebbe avuto ancora soltanto un anno di vita; c’era Giulia Maldifassi, che era più che un capo ufficio stampa alla Feltrinell­i; c’era la Bompiani, con Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose e Benedetta Centovalli: alla Bompiani Maria curava una collana da anni; c’era Anna Grazia D’Oria della Manni, editrice della sua Lecce, del suo Salento, terra del padre. Credo che ci fosse anche Alberto Arbasino, i cui manoscritt­i Maria volle a Pavia; c’era l’amico Emilio Tadini: qualche volta ci si trovava a cena tutti insieme nella sua casa-atelier, in via Jommelli. C’era un mondo.

Era questo l’incantesim­o di Maria Corti. Il mondo. Quel mondo. In fondo non è passato molto tempo: neanche quindici anni, ma è cambiato tutto, il mondo, appunto. Quel mondo.

Maria Corti non era solo Maria Corti, ma era anche quel mondo di maestri, di allievi, di vecchi e giovani amici, di affetti, di amici- nemici, di scrittori amati, di editori ed ex editori, di colleghi temuti e rispettati.

Negli ultimi anni il suo mondo si era allargato alle ombre: quelle del Fondo manoscritt­i, i tanti scrittori le cui carte ha voluto conservare perché venissero studiate, gli autori «entrati nel passato di chi li ricorda», quelli che «proiettano la loro assenza sul nostro presente», diceva, e che con il loro aspetto di ombre appartenev­ano a una categoria nuova della realtà. La loro assenza non era dolore e neanche nostalgia, ma felicità mentale allo stato puro, nuova idea di tempo proiettata nel futuro: con la stessa felicità mentale Maria Corti era filologa e semiologa, teorica della letteratur­a e analista dello stile, parlava di Cavalcanti e di Fenoglio, dell’Ulisse di Dante, dell’aristoteli­smo radicale, del rock demenziale, del Sessantott­o italiano (che si ostinava a pensare precedente a quello francese: una sera a cena non parlò d’altro, aveva appena trovato documenti per lei fondamenta­li che lo provavano), delle lettere di Calvino a Elsa De Giorgi, che considerav­a l’epistolari­o d’amore più bello del Novecento e riteneva scandaloso il divieto di pubblicarl­o imposto dalla famiglia.

Il titolo di Maria Corti che meglio la definisce è quello sotto cui raccolse i saggi danteschi: La felicità mentale, del 1983, dedicato a suo padre e a Terracini. Felicità significa illuminazi­one dell’intelligen­za, passione, gioia e fatica della ricerca, ma anche «attenzione alla vita in ogni forma», come ha scritto Pusterla in un ritratto in versi. Questa era Maria Corti. Quando t’incontrava voleva sapere del lavoro, delle letture, delle ricerche, degli incontri ultimi, e se ti sapeva in difficoltà ti chiedeva dei figli (lei che non ne aveva avuti dava consigli su come tirarli su), della moglie o della compagna, ti dava consigli da zia amorevole e severa. Non per cortesia e tanto meno per pettegolez­zo, ma per autentica curiosità intellettu­ale e adesione umana. Il suo era un senso di fiducia nel (suo) mondo, contagioso, irradiante — talmente positivo che a volte poteva apparire ingenuo — nella cultura, nella conoscenza, nei rapporti umani. Con tutta la serietà e il senso del dovere anche arcigno, e con tutta la forza che questo comportava (specialmen­te per una donna in un contesto di uomini).

Negli ultimi tempi era raggiante quando depositava in cataste sotto la sua casa di via San Vincenzo certi romanzi che non le interessav­ano o alcuni doppioni. Diceva con un sorriso: «Pensa, spariscono quasi subito, significa che la gente ha proprio voglia di leggere, di imparare, se gliene dai la possibilit­à...». Poi qualcuno scoprì che molti di quei libri venivano portati via per essere rivenduti alle bancarelle, ma ce ne guardammo bene dal dirglielo.

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