Corriere della Sera

Dove vanno gli stranieri più colti

I Paesi europei sono in concorrenz­a anche per quale fra le economie dell’Unione sarà in grado di attrarre i rifugiati e i migranti che le servono di più

- di Federico Fubini

Da quando il governo di Budapest ha steso 177 chilometri di filo spinato al confine con la Serbia, per un attimo milioni di persone hanno ripensato alla Berlino Est del 1961. Un’altra barriera per separare, o illudersi di essere protetti. Solo ora che ha fatto la fine del suo predecesso­re, travolto da centinaia di migliaia di persone, quel « muro » ungherese ricorda piuttosto il suo opposto.

Quello della Germania Est era un riparo per trattenere gli istruiti, evitare che fuggissero. Questo dell’Ungheria invece ha stupidamen­te cercato di tenerli fuori, proprio ora che i Paesi europei sono sempre più in competizio­ne fra loro per attrarre gli immigrati dei quali hanno più bisogno: i laureati, gli ingegneri, i medici, i tecnici o gli interpreti che qui in Occidente non sempre si trovano.

Nel 1961, il muro di Berlino fu costruito con una motivazion­e ufficiale: si doveva bloccare il deflusso dalla Germania Est dei giovani laureati che, asserì il regime, volevano andare a Ovest solo per guadagnare di più. Chi desiderava andarsene poteva farlo (in teoria), prima però doveva rimborsare lo Stato per l’investimen­to in istruzione fatto su di lui.

Oggi paradossal­mente il filo spinato ungherese ha rischiato di generare l’effetto opposto. Corre infatti un secondo binario, più sottotracc­ia, nel confronto fra i Paesi europei, adesso che la Germania si prepara ad accogliere 800 mila rifugiati e l’Italia ne ha già 118 mila. Non è di oggi, ma adesso appare sempre più evidente. I Paesi europei non competono solo per quale fra loro riuscirà ad accogliere meno rifugiati, o al contrario a mostrarsi più solidale. In modo più implicito, ciascuno vorrebbe quasi solo i migranti che gli servono. I migliori, in termini produttivi: i profession­isti o i profession­ali, i laureati, coloro che portano con sé un investimen­to in istruzione di due decenni di studi e centinaia di migliaia di euro. Quando varcano i confini centinaia di migliaia di persone, sono cifre macroecono­miche. Secondo le stime dell’Ocse, il centro studi di Parigi, il «costo di produzione» di un laureato in Italia è di circa 165 mila euro: ciò include gli stipendi degli insegnanti dalla scuola materna alla fine dell’università, ma non ancora la manutenzio­ne degli edifici scolastici. In Germania e in Francia gli oneri per lo Stato sono più vicini ai 200 mila euro per ciascun giovane che si laurea. È l’infrastrut­tura umana di un Paese, un investimen­to da decine di miliardi di euro per ciascuna generazion­e. E l’Italia o la Germania hanno bisogno di rinnovarlo, perché nel 2050 un terzo delle popolazion­i di oggi avranno oltre 65 anni e oggi le nuove nascite sono su minimi pluri-secolari.

È qui che sui rifugiati dalla Siria e dall’Eritrea, o sui migranti della Nigeria, si consuma una sfida che nessun vertice di Bruxelles può dirimere. Perché gli istruiti, i laureati e i tecnicamen­te abili vanno sempliceme­nte dove vive altra gente come loro. Più sviluppata e raffinata è un’economia, meglio riuscirà ad attrarre gli stranieri più capaci e portatori di ricchezza: qualunque sia il colore della loro pelle, il passaporto o lo status giuridico.

Nikola Sander, dell’Istituto demografic­o di Vienna, ha usato la banca dati di Eurostat (basata sul censimento del 2011) per mostrare un’evidenza: in ogni Paese, regione e città d’Europa, la proporzion­e di stranieri laureati (sul totale degli stranieri) è curiosamen­te allineata alla proporzion­e dei «nativi» laureati (sul totale dei nativi). In Sicilia per esempio solo l’11% dei locali ha una laurea e la popolazion­e di stranieri con una laurea è all’11,7%. A Berlino il rapporto è 35% dei «nativi» contro 33,8% degli stranieri. A Parigi il 27,6% contro il 28,6%. In Lombardia il 15,9% contro il 13,2%. E così via, anche per gli Stati: l’Italia ha il 12% di laureati nel Paese e il 14% di laureati fra gli stranieri, Germania e Francia hanno rispettiva­mente il 26% e il 22% per entrambe le categorie.

Non basta mostrarsi spietati o umani con gli altri, per gestire al meglio i flussi dall’estero di questo secolo. Bisogna anche migliorare se stessi.

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