«La rete può creare una città nuova» Carlo Ratti: la partecipazione comincia dal progetto, con un’architettura aperta
e mattine in cui il cielo è limpido, dalle finestre del salone, all’orizzonte è possibile scorgere le montagne. L’appartamento è di quelli di ultima generazione. Penultimo piano con ascensore in un complesso residenziale che definire nuovo non basta. Il tutto in via Cenni, a poca distanza dal cuore di Milano. Il prezzo? Mario e Roberta, una coppia di pensionati che qui vivono dal 2013, pagano per il loro bilocale 420 euro al mese e, se vorranno, tra qualche anno, potranno divenire proprietari. Quattro anni fa per caso capitò di leggere di un bando, fecero così la domanda e l’esito fu positivo. In breve tempo si trasferirono in quella che oggi è la loro casa a canone convenzionato, con patto di futura vendita.
«Cenni di cambiamento», si chiama il complesso abitativo e rappresenta uno dei principali progetti dell’«abitare sociale» che realizza la Fondazione housing sociale (www.fhs.it) costituita nel 2004 dalla Fondazione Cariplo (già operativa nel settore dal 2000) con il sostegno di Regione Lombardia e Anci. «Cenni» assieme a «Via Padova 36», «Abitagiovani» e «Borgo sostenibile» è uno dei progetti attivi in Lombardia dove, in quindici anni, sono stati erogati 71 milioni di euro, per un totale di 800 appartamenti (65 mila metri quadrati di superficie), di cui il 74% frutto di un recupero del patrimonio immobiliare già presente. Nel 2013 sono state alloggiate così diecimila persone. «L’Housing – spiega Giuseppe Guzzetti, presidente di Fondazione Cariplo – è una formula che garantisce un alloggio a chi si trova in una situazione di svantaggio: anziani, giovani, disabili, immigrati, famiglie e single. Un’edilizia low cost per una fascia di reddito tra i 15 mila e i 55 mila euro annui (al di sotto, si ha il diritto a richiedere la casa popolare, ndr). Ma il e cattedrali dell’edilizia popolare, dalle Vele di Scampia a Napoli al Corviale di Roma, vivono ormai nell’indifferenza del tempo passato. Monumenti all’incontrario di un’architettura che resterà emblema di ingiustizia sociale e politica miope. A farsi largo nell’Italia del 2.0 c’è una nuova edilizia fatta a ritmo di integrazione e socialità. Un nuovo modo di progettare le città che prende le mosse dal movimento Open Source. Una rivoluzione che ci riguarda. Ne è convinto Carlo Ratti, architetto, considerato tra le «50 persone che cambieranno il mondo».
Professore, cosa significa oggi ripensare l’edilizia rispetto all’emergenza abitativa?
Oggi è possibile pensare all’edilizia sociale partendo da approcci collaborativi, radicati nella cultura della rete. Nascono e si moltiplicano modelli discrimine economico non è l’unico. C’è alla base un concetto di welfare dal basso. Si chiede agli inquilini di essere disponibili a un aiuto reciproco. Un condominio in cui si condividono la lavanderia, l’orto, la sala giochi per i più piccoli e magari ci si dà una mano per assistere bambini e anziani, costruendo una rete di solidarietà».
É la storia di Ahmed, manovale, e di Basheera, traduttrice saltuaria: «Un affitto di quelli veri non ce lo saremmo potuto permettere. Fortuna ha voluto che degli amici, vedendo il bando, ci abbiano iscritto come partecipanti», pochi mesi di attesa e poi un alloggio al civico 36 di via Padova. Oggi Ahmed ricorda con amarezza quando con i suoi genitori viveva assieme ad altri otto parenti in un casa che poteva ospitarne due, al massimo. Al pianerottolo di fronte, abita Marco, separato da due anni. Lasciata la casa coniugale si è ritrovato a dover pagare un affitto di mille euro per un monolocale: «Era divenuto insostenibile, fino a quando navigando in internet alla ricerca di una soluzione mi sono imbattuto nel bando dell’housing per via Padova». Ma per Marco non è stato solo un sollievo economico: «L’aria che si respira qui è diversa. Si ha voglia di aiutarsi e conoscersi». Della stessa idea anche Paola F. «Abbiamo conosciuto l’housing sociale alla fiera del consumo critico “Fa’ la cosa giusta”. Vivevamo in affitto io, mio marito e i miei due figli, in una casa di due vani. Non ci è parso vero di poterci trasferire in un appartamento di 90 mq con canone calmierato». Lei, 37 anni, da dieci ricercatrice, il marito Raffaele, psicologo, entrambi precari. «Lo rifarei mille volte. – prosegue Paola – Il verde sotto casa e gli inquilini amici. Riviviamo il fascino delle case di ringhiera».
Insomma, un’ anomalia nel panorama immobiliare nostrano se si pensa ai mutui inaccessibili. Ma se l’Italia è vista come un’eccellenza nella progettazione di spazi condivisi, resta il fatto che qui il modello stenta ad espandersi (siamo sotto il 5% del totale delle abitazioni), soprattutto se si guarda ai paesi d’Oltralpe, dove il settore pesa per il 30% in Danimarca e Olanda e per il 20% in Inghilterra e Francia. Poche le Fondazioni private impegnate nel settore, praticamente assente finora il pubblico per un sostanziale disinteresse della politica. Ora però, Renzi ha annunciato la svolta. L’housing sociale per il premier è «com- di partecipazione — e di progettazione — collettiva. Il risultato è la possibilità di creare comunità integrate, che partono dalla comprensione delle necessità di tutti e mirano all’inclusione.
In Italia, però, siamo ai primi passi. Difficoltà culturale o questione politica?
L’Italia può vantare una grande tradizione nell’edilizia sociale. Vero è che oggi all’estero ci sono modelli importanti a cui ci possiamo ispirare. Penso soprattutto al mondo anglosassone e alle esperienze di «affordable housing» in cui attori privati sono obbligati a sovvenzionare parte delle unità abitative di un immobile, offrendole a chi ha meno mezzi, creando comunità integrate.
Lei ha dimostrato che le nuove tecnologie uniscono e non disgregano. Ma questo modello può essere davvero un’architettura per tutti?
Le reti, come dice il termine stesso, sono uno strumento che unisce. Ci possono aiutare in ambito Carlo Ratti dirige il MIT Senseable City Lab di Boston. Autore del saggio sull’Architettura Open Source (Einaudi, 2014), ha curato il Future Food District di Expo progettuale a molti livelli. Possiamo ad esempio usare i dati per analizzare le città e gli edifici. Possono poi contribuire al processo progettuale, dando vita a un’architettura aperta: un paradigma reso possibile dalle nuove tecnologie e da una nuova concezione dell’autorialità. Il progetto architettonico diviene un processo partecipativo, in cui a essere condivise sono sia le idee, sia i mezzi per attuarle. Ma tutte le tecnologie sono neutrali, sta a noi usarle per integrare.
Un sistema che ripensa la propria comunità, deve ripensare i propri spazi di convivenza. Il suo «quartiere ideale»?
È quello che vede tornare due grandi protagonisti: l’educazione e la produzione (penso all’industria 4.0, pulita e digitale). Due elementi chiave per sanare le fratture della città di fine Novecento.