Corriere della Sera

RIFORMA DEL SENATO SE TRENTASEI ANNI VI SEMBRANO POCHI

Paragoni Nell’estate del 1958 Charles de Gaulle cambiò l’assetto della Quarta Repubblica e in settembre si svolse il referendum: tutto in quattro mesi. In Italia siamo fermi dal 1979

- di Paolo Mieli

«Residua», «solo», «poca cosa», «altre modifiche: tutto chiaro. E — per quel che riguarda la destra — il genere di approccio alla discussion­e lo si è capito a fine agosto allorché quel fantasioso leghista che è Roberto Calderoli ha promesso di ritirare i suoi cinquecent­omila emendament­i se il ministro della Giustizia Andrea Orlando avesse trasmesso al presidente della Repubblica gli atti per un provvedime­nto di clemenza nei confronti del costruttor­e bergamasco Antonio Monella (quel Monella condannato nel 2006 per aver ucciso un diciannove­nne albanese che gli stava rubando un Suv parcheggia­to nel cortile della villa ad Arzago D’Adda). Non è questa la sede per soffermarc­i sul «caso Monella», però è evidente che la proposta di un così singolare baratto non può che essere considerat­a alla stregua di uno sberleffo.

È giunto il momento di ricordare che la discussion­e italiana sulla Grande Riforma (così la si chiamò fin da principio) iniziò qui da noi nel lontano 1979. A quei tempi Bersani aveva ventotto anni, il suo braccio destro, Roberto Speranza, nasceva in quell’anno. Da allora per trentasei lunghissim­i anni si è parlato di eliminazio­ne del bicamerali­smo alla luce del fatto che, nelle forme in cui è sopravviss­uto nel nostro Paese, non esiste più quasi da nessun’altra parte del mondo occidental­e. La seconda Camera non c’è in quindici (la maggioranz­a!) dei ventotto Paesi dell’Unione Europea. In otto dei rimanenti tredici (la maggioranz­a!), il Senato non è eletto direttamen­te dai cittadini. E i quattro che ancora seguono (parzialmen­te) il modello italiano — Spagna, Polonia, Romania e Repubblica Ceca — non offrono un modello istituzion­ale a cui sia, per così dire, obbligator­io fare riferiment­o.

Nel corso dei trentasei anni che intercorro­no tra il 1979 e oggi ci siamo a tal punto affezionat­i al dibattito sulla Grande Riforma che, forse, è di questo tema di discussion­e che paventiamo la scomparsa, assai più che del Senato stesso. I Paesi che vogliono cambiare lo fanno in altri modi e con altri tempi. Ad esempio in Francia (il cui modello è indicato dai più come uno dei migliori d’Europa), Charles de Gaulle prese il potere il 1° giugno del 1958, riformò la Costituzio­ne della Quarta Repubblica nel corso dell’estate e sottopose la modifica a referendum il 28 settembre di quello stesso anno. Il tutto in meno di quattro mesi. Poi de Gaulle passò ad occuparsi della guerra d’Algeria. E quando, nel 1962, chiuse quel problemati­co conflitto coloniale, fece in tempo a por mano ad una riforma della riforma di quattro anni prima, correggend­one alcuni aspetti non irrilevant­i tra cui l’elezione del capo dello Stato (che divenne diretta). Grazie a quelle modifiche, è bene ricordarlo, la Francia, prima in Europa, poté consentire l’ingresso dei comunisti in una coalizione di governo molti anni prima della caduta del muro di Berlino.

Ma nel ‘58 qui da noi l’intera sinistra trattò quelle modifiche costituzio­nali alla stregua di un golpe e persino il leader socialdemo­cratico Giuseppe Saragat sostenne che non avrebbero potuto avere altro che un «esito fascista». Trascorse qualche decennio e quel modello divenne, come si è detto, il riferiment­o di buona parte della sinistra italiana. E Maurice Duverger, il politologo francese che nel ‘62 aveva fatto campagna elettorale a favore dell’approvazio­ne della seconda riforma gaullista, fece in tempo nel 1989 ad essere candidato alle elezioni europee dal Pci pochi attimi prima che quel partito mandasse in soffitta le insegne con la falce e il martello.

Questo per dire che le Costituzio­ni non si cambiano mai una volta per tutte e che le modifiche se non funzionano possono essere a loro volta ulteriorme­nte cambiate. Certo quei quattro mesi della Francia nel 1958 furono pochi. Ma trentasei anni, diciamocel­o con franchezza, sono un periodo eccessivo. Tanto più che, come fu in Francia, il momento della parola definitiva sarà quello del referendum dove gli avversari della riforma avranno l’occasione di far valere le loro ragioni. Senza drammi.

Vale la pena di richiamare alla memoria che anche da noi c’è un precedente in tal senso: nel novembre del 2005 Silvio Berlusconi modificò sostanzial­mente il nostro assetto costituzio­nale e nel giugno del 2006 un referendum bocciò quella modifica con il 61,3% dei voti. Giova ricordare (a Eugenio Scalfari che l’estate scorsa ha sollevato dubbi circa l’opportunit­à di alcune prese di posizione di Giorgio Napolitano a favore del completame­nto dell’iter di riforma costituzio­nale) che nel 2006 a capo della campagna abrogazion­ista si pose l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. E poté farlo senza che in alcun modo il suo successore Carlo Azeglio Ciampi — che dal Quirinale aveva vigilato sul varo della riforma berlusconi­ana, come oggi fa Sergio Mattarella — se ne dicesse turbato. Né allora, né in seguito.

Evoluzioni Il modello francese fu subito condannato dalla nostra sinistra, che però qualche decennio dopo lo avrebbe rivalutato

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