Mattarella, la memoria e il civismo
L’impegno per l’educazione come terreno decisivo su cui si misura la qualità della democrazia
Sono almeno tre i fili che percorrono gli interventi di Sergio Mattarella sulla politica e la scuola, di cui Luciano Pazzaglia ha magistralmente curato la raccolta. Crescere insieme. Scritti di Sergio Mattarella ricolloca la silloge di articoli, relazioni e interviste nella traiettoria che ha portato il giovane militante della Gioventù di Azione cattolica dei palpitanti anni del Concilio Vaticano II alla ricerca e poi alla politica, fino a quell’approdo alla Corte costituzionale che non è stato il compimento, ma l’anticamera del compimento.
Il primo è il filo della memoria. Mattarella, praticante di una spiritualità del riserbo, esprime a più riprese le sue visioni nei termini di un debito verso amici e maestri. Non è, il suo, un ricorso allo stilema democristiano che citava Sturzo e Moro o concordava a viva forza De Gasperi e Dossetti per pretendere indulgenza per quella «concretezza» (la parola chiave dell’andreottismo, mai tramontata dal lessico politico) sideralmente lontana dalle figure che evocava. Il registro della memoria mattarelliana, invece, è un altro: è quello di chi ritiene che chi evoca Alcide De Gasperi possa farlo solo sentendo «il senso della propria insufficienza»; di chi ricorda che la grandezza di Leopoldo Elia è quella di aver segnalato per tempo la disaffezione per il patto costituente; è quello che per parlare di Bobo Ruffilli cita d’istinto l’espressione — «buono e mite» — che Paolo VI aveva usato per Aldo Moro, l’uomo capace di portare alla politica la vocazione a «spender bene i talenti» del fratello Piersanti, e che per lui, specie alla scrivania di viale Trastevere, è il modello di una politica capace di guardare ansiosa negli occhi i problemi della società di domani e non solo di smaltire quelli vistosi lasciati lì ieri.
Il secondo filo è quello del tempo. Mattarella, ancora una volta specialmente da ministro dell’Istruzione, coglie il valore politico del tempo storico e del tempo esistenziale dei giovani. Come dice alla Conferenza nazionale sulla scuola, programmata da Giovanni Galloni e da lui aperta nel 1990: «Dobbiamo dire con franchezza che nessuna di queste difficoltà appare superabile in tempi brevi e con iniziative di corto respiro. Con altrettanta franchezza dobbiamo riconoscere che nessuna difficoltà si rivela insuperabile a un’analisi serena delle risorse morali e professionali di cui dispongono le forze che a vario titolo operano nella scuola e per la scuola». Il tempo decide infatti della qualità della democrazia: si contrae sotto la pressione di stili di vita, si polverizza sotto il peso di una informazione manipolabile, si raccorcia dove la classe dirigente contrae la propria capacità di selezione e si limita alla occupazione del potere, si offre come razionalizzatore della propaganda. Sicché a una ministra che voleva restaurare il maestro unico e programmare il «sovvertimento» di quarant’anni di politica scolastica, Mattarella ricorda con flemmatica spietatezza che all’inizio di quel lasso di tempo deprecato andava a scuola un bambino su quattro e uno su dodici alle medie...
Il terzo filo è quello della convivenza o della alterità. Mattarella, come il cattolicesimo politico nazionale che discende dalla filiera DossettiLazzati-La Pira, è diffidente verso l’automatismo liberale che periodicamente si riaffaccia nella vicenda nazionale spiegando che i problemi atavici e drammatici di questo Paese si risolvono lasciando aperto il gioco sociale. Nella Cattedrale di Lipari, nell’agosto di venticinque anni fa, dichiara l’importanza e l’insufficienza del broccardo romanistico secondo cui la propria libertà finisce dove comincia quella dell’altro. Al contrario, dice Mattarella ai giovani, «la tua libertà si realizza con quella dell’altro», perché è nel tenersi stretta questa complessità che si accumulano le energie per risolvere i problemi cruciali della democrazia: l’informazione, la partecipazione, la trasmissione intergenerazionale del valore specifico delle istituzioni democratiche.
Mattarella infatti — lo rileva bene Pazzaglia — vede lo Stato non come l’astrazione sacralizzata dei totalitarismi o come un campo di gioco segnato dalle flebili «regole» che decidono del prepotente e del debole, ma come spazio umano della comune aspirazione di giustizia e dunque carico di senso: e sa, per esperienza, che il senso dello Stato ha svergognato o distillato le tante energie intellettuali che il cattolicesimo ha fornito alla Resistenza e alla Repubblica. Quello di Mattarella è il senso dello Stato rigoroso, antiopportunista, che ha dato all’Italia recente i Lazzati, i Bachelet, i Moro, gli Andreatta, gli Scoppola. E che di nuovo Leopoldo Elia nel 1967 indicava come un bisogno che Mattarella cita con convinzione: «Manca nel nostro pluralismo la dimensione del civismo o della virtù civica, che attiene al giusto rapporto fra società civile e Stato». Una mancanza che resta ed è la sfida autentica di un Paese che quotidianamente incontra il bivio fra il «crescere insieme» e il dantesco frantumarsi seguendo «ogne villan che parteggiando viene».
Eredità ideale Con lo stile del riserbo ricorda a più riprese il debito accumulato verso amici e maestri
Al governo Vede le istituzioni come uno spazio umano segnato dalla comune aspirazione di giustizia