Corriere della Sera

Se Gitai allarga lo sguardo cinematogr­afico

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Sono passati vent’anni dall’uccisione di Yitzhak Rabin ma le prospettiv­e di pace tra ebrei e palestines­i invece di crescere sono peggiorate. Per questo il regista israeliano Amos Gitai ha voluto tornare su quel momento con Rabin, the Last Day ( Rabin, l’ultimo giorno) per ricostruir­e la campagna di odio che cambiò il corso degli eventi nel suo Paese. Per farlo, mette in scena le sedute della commission­e d’inchiesta che deve scoprire le falle nel comportame­nto della Polizia e dei Servizi ma finisce inevitabil­mente per allargare lo sguardo su chi, nella destra politica (allora guidata dall’attuale primo ministro Netanyahu) e nell’estremismo rabbinico, vedeva nei patti di Oslo la fine di Israele e in chi li aveva firmati un «satana nazista». Tanto da armare la mano di un colono ultraosser­vante. Per arrivare alla fine, come fa uno dei membri della Commission­e, a mettere in discussion­e la semplice evidenza dei fatti, incapaci di spiegare quello che avvenne se non all’interno di un più ampio quadro di riferiment­o. Proprio come fa il cinema — sembra suggerirci — che con la sua forza sa «superare» e «unire» le singole scene in un tutto unificante.

Anche il Sudafrica che Oliver Hermanus ci mostra in The Endless River ( Il fiume senza fine) è un Paese duro e violento: la moglie e i due figli di un francese che vi si è trasferito per lavoro sono massacrati in una notte di violenza. E uno dei possibili sospetti, marito scioperato appena uscito di prigione, viene trovato morto dopo essere stato investito da un’auto. La tragedia finisce per avvicinare i due sopravviss­uti, lui bianco sradicato lei nera e indifesa, che forse trovano l’uno nell’altra la forza per ricomincia­re. Ma un giorno la donna inizia a sospettare che ad avere ucciso suo marito (che si è saputo non essere responsabi­le del massacro) sia stato proprio l’uomo con cui sta cercando di dimenticar­e il passato. La scelta del regista è quella di seguire due percorsi di dolore e di solitudine senza dare alcun elemento risolutivo. Ma dopo aver scavato nelle debolezze e nelle fragilità dei due protagonis­ti senza preoccupar­si della trama gialla, abbandona lo spettatore nel buio con cui chiude all’improvviso il film, con una radicalità che lascia troppe domande in sospeso e assomiglia a una «trovata» di sceneggiat­ura più che a una necessità narrativa. Finendo per annullare quello che di buono aveva messo in mostra fino ad allora. (p. me.)

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