Corriere della Sera

Il rebus del dopo Expo

Campus universita­rio, tra burocrazie e ritardi La storia di un travagliat­o progetto a singhiozzo

- Elisabetta Soglio

Dire che è un garbuglio è poco. E, per paradosso, molti sono convinti che avere revocato l’incarico agli advisor spiani ora la strada verso la definizion­e del dopo Expo. Ma vale la pena fare un passo indietro per capire quanta sia la confusione e quali siano ancora i tanti nodi da districare per decidere il destino di oltre un milione di metri quadrati che oggi ospitano l’esposizion­e universale (mica uno scherzo: qualcosa tipo 180 campi da calcio regolament­ari, uno accanto all’altro).

L’errore venne fatto a monte, quando si pensò all’Expo senza progettare la destinazio­ne futura di terreni che nel frattempo sono stati bonificati, infrastrut­turati, collegati a treni, mezzi pubblici locali e autostrade. Per recuperare, la società proprietar­ia dei terreni Arexpo (composta da Regione, Comune, Fiera e, in piccola percentual­e, Comune di Rho) aveva garantito che non si sarebbe perso tempo e che avrebbe chiesto alle Università milanesi di studiare uno sviluppo possibile. A febbraio, mentre ancora il post Expo era una nebulosa, arriva la proposta della Statale avanzata dal rettore Gianluca Vago: trasferiam­o lì alcune facoltà della Statale. Si accoda Assolombar­da: facciamo la cittadella dell’innovazion­e. Nel frattempo avevano già perso appeal (e sostenibil­ità economica) le varie idee emerse, da quella dello stadio alle varie città della musica, delle nuove tecnologie e così via. Il campus universita­rio convince, sia perché è più attinente al tema dell’alimentazi­one (le facoltà da trasferire sono quelle scientific­he, da agraria a biologia, insomma), sia perché, diciamolo malamente, dove si portano i giovani si porta vita.

Il primo intoppo è però burocratic­o: il presidente dell’Anticorruz­ione Raffaele Cantone boccia l’idea di un affidament­o diretto ad un advisor che studi lo sviluppo dell’area. A quel punto, siamo a marzo, Arexpo decide di indire un bando. Il 4 aprile il Governo chiama tutti i soggetti pubblici a Roma e, per la prima volta ufficialme­nte, dichiara di voler entrare nella partita. Fantastico. Passano i mesi, Arexpo è sempre alle prese con il bando per gli advisor ed ecco che il Governo concretizz­a la propria disponibil­ità in una bozza di masterplan studiata in ogni dettaglio da Cassa depositi e prestiti insieme ad Agenzia del Demanio. Cioè da chi dovrà garantire la copertura economica. Ci sono il disegno, i costi che ciascuno dovrebbe sostenere, quelli da aggiungere (l’operazione è complessiv­amente da un miliardo di euro per riqualific­are 400 mila metri quadrati, il resto deve restare a verde). Tutto bene? No, perché ci sono ancora gli advisor e i 31.500 euro spesi per l’incarico che viene assegnato in luglio. Ma anche lì, vince la burocrazia: tempi tecnici e procedure obbligator­e, il team di esperti entra ufficialme­nte incarica a metà settembre. Il contratto dà loro 90 giorni di tempo per esprimersi, Arexpo capisce che sista perdendo altro tempo e, l’altro giorno, revoca l’affidament­o. La domanda resta sospesa: ma non si poteva chiudere la vicenda advisor ad aprile, quando arriva la proposta del governo?

Ma qui c’è l’altro inghippo. Il governo formalment­e non ha titolo per intervenir­e, perché non è nel board di Arexpo. Da mesi si dice e ripete che ci sarà un cambio di governance. Ma come? Si ricapitali­zza? E, soprattutt­o, chi prenderà il timone della società? Qualcuno ha già visto lungo: chi ha evocato il commissari­o, chi, come il sindaco Giuliano Pisapia, ha parlato di un dominus. Nella prima settimana di ottobre si dovrebbe prendere una decisione per potere arrivare alla chiusura di Expo dicendo a Milano, all’Italia e al mondo: «Ecco come trasformer­emo questo enorme spazio».

Ma sul tema della governance è impossibil­e non ricordare che si erano persi quasi tre anni per la società Expo. Sarà servita la lezione?

Il primo errore Non aver deciso sin dall’inizio il destino dei terreni bonificati per la manifestaz­ione

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