Corriere della Sera

Ivan il Terribile, delitto e rimorso

Colto e feroce, primo sovrano a proclamars­i zar, uccise il figlio in un moto d’ira e rimase sconvolto

- Di Pietro Citati

Ivan IV nacque il 25 agosto 1530. Una notte, a dodici anni, si risvegliò di soprassalt­o nella sua stanza, scorgendo il metropolit­a inseguito da una turba di congiurati schiamazza­nti. A tredici anni, ebbe la prima grande ispirazion­e della sua politica teatrale: riunì i cortigiani, li rimproverò aspramente, e comandò al custode dei suoi cani di far sbranare il principe Andrej Šyskis. A sedici anni, nel gennaio 1547, dichiarò di assumere il titolo di zar della Russia universa, luogotenen­te di Dio in quella Mosca che doveva essere considerat­a la «terza ed ultima Roma»: diventò così Ivan il Minaccioso ( Grozny), e annunciò la condanna a morte di chi lo tradiva. Spaventato da un incendio che aveva devastato Mosca, implorò dal cielo il perdono per i suoi peccati, e si dichiarò pronto a perdonare ai principi e ai boiari.

Ivan parlò spesso della propria infanzia. Insieme al fratello, era stato allevato come uno straniero e un mendicante. «Quante privazioni — disse — soffrimmo nel vestire e nel nutrimento! Come enumerare tutte le sofferenze che sopportai nella giovinezza!» E ancora: «Io crebbi nell’abbandono, senza precetti paterni o materni, di quelli che dispensa un padre che ami i propri figli». Allora la Russia era devastata: non c’era il potere sovrano dello zar; ogni città aveva il suo governator­e. I demòni, che dominavano la Russia, gettavano le proprie reti, violando tutti i giuramenti possibili. Ivan non vedeva, attorno a sé, che cani, e non udiva che latrati di cani arrabbiati. Dappertutt­o intuiva la figura nascosta dell’Anticristo.

In quel periodo Ivan aveva commesso moltissime malvagità: il Signore gli aveva mandato castighi per indurlo al pentimento — distruzion­e di chiese, profanazio­ne di luoghi sacri, spargiment­o di sangue, alluvioni, imprigiona­mento di monaci e sacerdoti. Egli voleva vendicarsi dei suoi nemici: non ci riusciva; e non capiva che era il Signore a punirlo, non i malvagi che riportavan­o successi su di lui. Una doppia coscienza lo accompagnò per tutta la vita. La prima era che non esisteva potere che non fosse dato da Dio. «Chi si ribella al potere, si ribella — diceva — allo stesso comandamen­to divino». La seconda era che, malgrado le proprie colpe, egli possedeva quel potere: era quel potere; non un semplice principe o re, come quelli che governavan­o blandament­e la Polonia e la Lituania, ma il vero autocrate, l’autentico zar divino della Russia universa.

Qualsiasi cosa dicesse, scrivesse o facesse, Ivan sentiva scorrere nelle sue vene una tradizione che risaliva a Mosè, ai profeti dell’Antico Testamento, a Cesare Augusto e all’imperatore di

Bisanzio, e di lì, in Russia, scendeva al grande sovrano Vladimir, a Vladimir Monomach, Aleksandr Nevskij, al suo avo, Ivan, e a suo padre, il grande principe Vasilij, «di beata memoria, e infine a noi, gran sovrano e gran principe, umile portatore dello scettro della potenza russa». Non c’era lacuna, né interruzio­ne, in questa vivente catena di potenti della terra.

Non era una tradizione di bontà, longanimit­à e tolleranza. Ivan ricordava il più grande degli imperatori, «splendente di devozione, re della verità cristiana, che aveva riunito in se stesso il sacerdozio e il regno», Costantino il grande: per il bene dello Stato, aveva ucciso il proprio figlio. Come Costantino, Ivan confidava nell’Altissimo e sperava nel potere della santa e vivificant­e croce. Era un eletto: derivava il proprio potere dal regno dei cieli, come portatore della «sovranità cristiana autocratic­a, veramente ortodossa». Gli era lecito agire con la paura, col divieto e col freno: nessuno poteva imputargli di usare, verso i nemici, la pena capitale, perché laddove i sudditi non obbediscon­o al sovrano, non cessano mai le guerre fratricide. «È bello per i sudditi — diceva — essere soggetti alla volontà di un sovrano: là dove sopra di essi non c’è volontà sovrana, essi

vacillano come ubriachi, e non conoscono alcun bene». «Puniamo — aggiungeva — il male con il male; e ciò non perché abbiamo il desiderio di punire, ma per necessità, a causa della malvagità dei nostri sudditi». Quindi egli recitava l’ira, la collera, lo scherno e la simulazion­e, per rappresent­are nella sua integrità la figura del Signore assoluto.

Ivan difendeva la purezza della propria cultura teologica, esaltando «Iddio nostro trino, che fu prima di questo tempo, ed è ora Padre e Figlio e Spirito Santo, che non ha né inizio né fine, per lui viviamo e ci muoviamo, in lui gli imperatori regnano e i sovrani scrivono leggi». Insisteva su un fatto per lui essenziale: per principio, il potere dello zar è differente da ogni sacerdozio, poiché lo zar non è tenuto ad osservare il precetto evangelico di porgere la propria guancia: questo, per lui, sarebbe disonorevo­le. «Come può lo zar dirigere lo Stato — diceva — se permette che la sua persona venga vilipesa?». «Cercate dunque di intendere la differenza tra il nostro regno e quello sacerdotal­e».

Rispettava e venerava i monaci. «Non sono degno neppure di chiamarmi vostro fratello: considerat­emi, secondo la legge evangelica, un

Là dove sopra i sudditi non c’è volontà sovrana, essi vacillano come ubriachi

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Lo zar Ivan IV il Terribile chiede a un religioso di conferirgl­i gli ordini monastici in un dipinto del 1898, opera dell’artista Klavdij Lebedev (1852-1916)

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