Corriere della Sera

TORMENTI MISTICI SE NELLA SOFFERENZA DEI SANTI RIECHEGGIA­NO I MARTIRI POLITICI

- di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

La curatrice Sebregondi: «Uno dei temi più raffigurat­i è la Crocifissi­one perché ha dramma narrativo»

L’appuntamen­to A Firenze una mostra a Palazzo Strozzi racconta come da metà ‘800 ai nostri giorni la rappresent­azione del divino si debba confrontar­e con la crisi della fede

«Vi abbiamo fatto tribolare » . Con queste parole rivolte agli artisti riuniti nella Cappella Sistina, nel 1964, Paolo VI mise una pietra sopra secoli di dialettica difficile, quella che intreccia arte e sacro.

C’erano state le rigide committenz­e rinascimen­tali, simbolo di potere assoluto, poi i ritratti «su misura» dell’alta borghesia sei e settecente­sca; gli scandali come quelli di Caravaggio che innestava temi «bassi» nei grandi dipinti destinati alle chiese; o di Guttuso, che con la sua Crocifissi­one del 1942 si guadagnò l’appellativ­o di pictor diabolicus: ci aveva messo una Maddalena seminuda e oggi il quadro troneggia in una delle sale più suggestive della mostra Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana, a Palazzo Strozzi, Firenze.

Una mostra che riesce in un racconto difficile: mostrare come l’arte ha rappresent­ato dio nell’epoca in cui (citando Nietzsche) «dio è morto». Opere di artisti italiani e stranieri dalla metà dell’Ottocento (dunque alla vigilia dell’ondata anticleric­ale nata dai moti indipenden­tisti) fino alla metà del Novecento, quando dio era forse ancora più difficile da raccontare perché come si fa a raccontare la fede quando Picasso aveva fatto vedere Guernica?

«Non è stato facile — ammette Ludovica Sebregondi, una dei curatori —. Ma è stato un percorso fertile, fatto insieme anche all’Arcidioces­i di Firenze. Ci ha arricchiti dentro».

Si parte con i grandi dipinti ottocentes­chi destinati agli altari. L’influenza francese (Géricault, ma anche Delacroix) si avverte nelle figure sofferenti, nei corpi piegati. C’è una bellissima Caduta di san Paolo, di Domenico Morelli, che spezza la ieraticità del santo e ci fa vedere un uomo nella polvere, agonizzant­e. «In molti dipinti simili riecheggia­vano i martiri politici ottocentes­chi», nota Sebregondi. Emerge qui il lato «politico» del sacro nell’arte moderna e contempora­nea. Come potrebbe essere altrimenti, in un’epoca in cui il pensiero cristiano si intrecciav­a con la filosofia? Jacques Maritain, per esempio: influenzò più di un artista.

Si va avanti e nelle sale (ordinate per temi) si nota come la passione e la crocifissi­one di Cristo siano i temi più rappresent­ati. «Perché drammatici — dice la curatrice — dunque, raccontabi­li». Ecco un altro aspet- to, quello della narrazione, proprio del nostro tempo. Lo dimostra il fatto che in mostra c’è una sola Resurrezio­ne, quella di Emile Bernard, primi anni Venti. Con un Cristo nudo, che richiama l’iconografi­a dell’arte antica, quella che rappresent­ava il Battesimo di Cristo. Insomma, si fa fatica a rappresent­are il lato metafisico della fede: l’uo- mo ora è al centro del mondo, adatta gli dèi alla propria quotidiani­tà, come aveva intuito luminosame­nte Senofane nel V secolo a.C. — «Gli etiopi dicono che i loro dèi sono di pelle scura e hanno il naso camuso».

Ecco perché uno dei dipinti più suggestivi di questa accurata mostra è L’angelo dell’Annunciazi­one di Glyn W. Philpot, 1925: la prospettiv­a dell’evento evangelico fa sì che lo spettatore «entri» nei panni della Vergine e guardi l’angelo.

Il contrario di quello che Antonello da Messina aveva immaginato per la sua Annunciata di Palermo, nel 1476, dove lo spettatore passa dalla prospettiv­a dell’angelo. È come un cerchio che si chiude: l’arte come espression­e devota della divinità si sposta a rappresent­are il divino con gli occhi dell’uomo.

E la figura della Vergine è una di quelle più rappresent­ate. Il mistero numinoso racchiuso nell’annuncio, qui sconfina nel provocator­io (la Madonna «vezzosa» di Corcos, che aspetta l’angelo truccata e abbigliata bene) o nel simbolico (quella di Capogrossi è un’annunciazi­one tra due donne). Certo, in mostra spiccano «pezzi» importanti, come la Crocifissi­one bianca di Chagall (summa delle atrocità e delle meraviglie del Secolo Breve) o L’Angelus di Millet (straordina­rio esempio di trasposizi­one simbolica: un’ode alla semplicità contadina realistica di metà Ottocento diventata in seguito un’icona della preghiera).

Però il bello sta nel rintraccia­re nelle altre opere (che precedono cronologic­amente la rottura finale ad opera dell’Informale) quel leggero imbarazzo, quell’incertezza nel raffigurar­e qualcosa che molti stanno mettendo in discussion­e.

Improbabil­i Cristi che attraversa­no stradine inglesi, bambini in ginocchio davanti a quadri sacri tagliati a metà, una ragazza che, nel fervore estatico della preghiera, non si accorge che una spallina della camicia da notte le svela quasi un seno (quel geniaccio di Vincenzo Vela). È una mostra bella perché rintraccia delle insicurezz­e nel gesto, nella pennellata, nella poesia. Quell’umanità che ci riavvicina alla bellezza. Divina.

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