Corriere della Sera

STAMPA E REGIME NELL’ITALIA FASCISTA

- Antonio Merlo antonio_merlo@icloud.com

Ho guardato con interesse la serie dei dvd dedicati alla Seconda guerra mondiale edita dal Corriere e introdotta da Paolo Mieli. In ogni dvd è inserito un piccolo fascicolo introdutti­vo con all’interno una pagina del Corriere. Mi ha colpito la completa adesione alle scelte politiche e militari del giornale al regime, con titoli retorici e roboanti tesi a enfatizzar­e gli eventi e le azioni dei tedeschi e dei fascisti, anche dopo il 1943. Com’è possibile che un giornale con la storia liberale del Corriere, capace addirittur­a con Albertini di condiziona­re l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, fosse così platealmen­te in accordo con le scelte politiche di Mussolini e dei tedeschi e non vedesse e fosse a conoscenza degli errori e orrori compiuti da quei regimi?

Non credo che lei debba esserne sorpreso. Il regime fascista non fu «totalitari­o», nonostante la parola sia stata coniata da Mussolini. Su alcune materie lasciava margini di commento e discussion­e difficilme­nte immaginabi­li nel Terzo Reich e nei regimi sovietici. Ma la politica internazio­nale era dominio riservato del capo del governo, un terreno in cui raramente ascoltava consigli. Aggiungo che Mussolini era nato giornalist­a, dedicava una buona parte della sua giornata alla lettura della stampa nazionale e internazio­nale, discuteva la preparazio­ne del Popolo d’Italia ogni sera con la redazione milanese del giornale e se ne serviva spesso per pubblicare corsivi anonimi o recensioni di cui tutti intuivano la paternità. I giornali dovevano conformars­i alle direttive quotidiane del ministero della Cultura popolare, ma soprattutt­o sapevano di avere a Palazzo Venezia un «redattore-capo» molto autoritari­o che, per di più, conosceva il mestiere.

In tempo di guerra i margini di libertà dei giornali erano ulteriorme­nte ridotti. La grande maggioranz­a degli italiani avrebbe preferito la non belligeran­za, ma le regole civiche e morali degli Stati europei, non importa se democratic­i o autoritari, volevano allora che l’intero Paese facesse quadrato patriottic­amente dietro la patria in armi. Molti intellettu­ali non avevano dimenticat­o il caso di Benedetto Croce alla vigilia della Grande guerra. Il filosofo napoletano non approvava l’intervento e aveva preso posizione fermamente contro l’ondata interventi­sta che sommerse il Paese in quei mesi. Ma quando la guerra fu dichiarata, mise a tacere tutte le sue obiezioni e riserve. Nel 1940 questo clima culturale esisteva ancora e si rifletteva nei toni e negli accenti della stampa nazionale. Durò grosso modo sino alla fine del 1942. Gli umori e i sentimenti della pubblica opinione cambiarono sotto la spinta di alcuni avveniment­i: i bombardame­nti sulle città italiane, l’evoluzione della situazione militare nei Balcani, la battaglia di El Alamein e, qualche mese dopo, quella di Stalingrad­o. Divenne molto più difficile da allora, per i giornali, descrivere la guerra ai loro lettori. E fu ancora più difficile sopravvive­re con qualche autorevole­zza nei lunghi mesi dell’occupazion­e tedesca e della guerra civile. In ultima analisi, tuttavia, il ritorno alla normalità fu più facile per quei giornali, fra cui il Corriere, che non avevano completame­nte smarrito il sentimento della loro identità e delle loro tradizioni.

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