Corriere della Sera

«Non incateniam­o Dio»

L’arcivescov­o di Ancona: Bergoglio esorta a essere pastori, io l’ho fatto davvero a 11 anni

- Di Gian Guido Vecchi

«Incatenare la parola di Dio, è questa la tentazione». Il cardinale Edoardo Menichelli al Corriere: «Il Papa ci vuole pastori».

CITTÀ DEL VATICANO «Vede, la tentazione di tutti — e quindi anche di me vescovo — è quella di incatenare la parola di Dio». Il cardinale Edoardo Menichelli, 76 anni, ha guidato nell’ultimo Sinodo uno dei gruppi di discussion­e. Difficile trovare un porporato più affine al Papa che esorta i vescovi ad avere l’«odore delle pecore». Lui sorride, la voce calda e profonda: «L’odore delle pecore lo conosco, in effetti, e anche la loro cocciutagg­ine». Aveva undici anni quando morirono entrambi i genitori. «Il buon Dio ha voluto questo e la mia vita è cambiata. Ho dovuto abbandonar­e la scuola, frequentav­o l’avviamento profession­ale, il mio destino era diventare fabbro o falegname. Era un tempo di povertà ben marcata e diffusa. Per sbarcare il lunario e aiutare i nonni il lavoro più semplice era fare il pastore, l’ho fatto. Poi le strade del Signore sono imprevedib­ili ed eccomi qui».

In seminario dal ginnasio agli studi filosofici e teologici, la licenza in teologia a Roma. Nell’ultimo concistoro, dopo averlo visto all’opera durante il Sinodo, la sorpresa: Francesco crea cardinale l’arcivescov­o di Ancona.

Eminenza, che succederà al prossimo Sinodo?

«Anzitutto credo sia necessario un chiariment­o: il Sinodo non è un convenire deliberati­vo. È un laboratori­o in comunione col Papa su temi specifici, in questo caso la famiglia. Non dobbiamo aspettarci qualcosa che poi diventa norma. Le sintesi vengono consegnate al Papa e il Santo Padre farà le sue scelte».

Durante il viaggio negli Stati Uniti, Francesco ha messo in guarda i vescovi dalla «burocrazia» e l’«ufficialit­à» dei «circoli ristretti».

«La tentazione di incatenare la parola Dio è grande perché è il percorso più facile: la si cataloga e riduce sulle nostre misure. Invece Dio è pieno di fantasia e fa in modo che la sua verità immutabile si dispieghi in ogni tempo della storia». E quindi? «E quindi, poiché viviamo in un mondo così complesso e abbiamo a che fare con situazioni difficili e problemati­che, ridurre la nostra pastorale alle norme, alle nostre categorie giuridiche, è più facile ma pericoloso. Lo so perché la mia formazione da seminarist­a era questa. Bisogna invece che entriamo nella paternità di Dio che rende vera la verità e praticabil­e la misericord­ia. Questo per me deve essere il chiodo fisso di un pastore: e lo deve fare restando vicino alla carne delle persone».

Lei parla di vicinanza alle persone concrete. Sulle situazioni «difficili», tendono a contrappor­si la «dottrina» e la misericord­ia...

«Non sono raffinati teologi, le persone. Io sono convinto che solo nella paternità pastorale, che imita la paternità di Dio, la verità è donata e accolta e la misericord­ia è dispensata come vera medicina. Verità e misericord­ia non vanno messe in contrasto: ambedue nascono dalla persona di Gesù Cristo che è la via, la verità, la vita. E la misericord­ia che salva. Ogni tentativo di separarle è una disobbedie­nza al mistero di Cristo». Ma perché accade? «È una sorta di disturbo culturale, per il quale la verità imprigiona e la misericord­ia è condonismo e indulgenza. Per noi è l’opposto: ambedue sono la salvezza e ambedue richiedono un cammino di conversion­e».

Ci sono resistenze alla «conversion­e pastorale» invocata dal Papa?

«Le posso immaginare, anche se personalme­nte non le ho verificate. Certamente il nuovo interroga sempre. E ti spinge a fare passi di verità sulla tua vita, il tuo comportame­nto, il ministero da compiere».

Come si risolverà la questione dei divorziati e risposati, ad esempio?

«Credo che questi problemi si saneranno con diversi atteggiame­nti pastorali: la verifica di un matrimonio già celebrato, l’accoglienz­a e la tenerezza dell’accompagna­mento... Tutto questo, e altro, consentirà alla grazia di Dio di permeare le nostre coscienze. Le conversion­i non si fanno schioccand­o le dita. Del resto stavolta è diverso». In che senso? «Il Sinodo dell’anno scorso era più rivolto alle “sfide” pastorali, come vengono chiamate: i problemi, le ferite. Questa volta il clima è più intenso perché al centro c’è la vocazione e la missione della famiglia. È totalmente diverso dal primo. Siamo chiamati ad approfondi­re la verità della famiglia, il suo essere un dono perché fondata sul sacramento del matrimonio: una chiamata, perché nella nostra visuale e anche sul versante umano sposarsi è una vocazione. Che cosa deve fare la famiglia, qual è il suo compito?».

Ma c’è il rischio di un «muro contro muro» tra conservato­ri e progressis­ti?

«Io penso di no, che il Sinodo non patirà questa tentazione se seguirà l’indicazion­e del Santo Padre: franchezza, parresía evangelica nel parlare, e umiltà nell’ascoltare. Bisogna che si incontrino le varie sensibilit­à. Nel dibattito ho sperimenta­to una grande tensione pastorale, bisogna considerar­e tutto questo come un cammino di conversion­e ecclesiale. Le sensibilit­à si devono incrociare senza tradire ciò che è essenziale, e questo è possibile. C’è una condizione fondamenta­le, tuttavia: che la Chiesa tutta, e in particolar­e chi ha responsabi­lità di pastori, si inginocchi davanti allo Spirito, si lasci intenerire ed educare dallo Spirito. Alla fine, affideremo le nostre riflession­i al Papa».

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(Lami/Ansa) Foto ricordo Uno dei partecipan­ti al Sinodo scatta una foto con il cellulare durante la messa di apertura

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