Corriere della Sera

Un secolo di scuola

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Scatti dalla mostra «Radici di futuro. L’innovazion­e a scuola attraverso i 90 anni dell’Indire»

Lezione sui libri in una scuola elementare di Diano Borello (Imperia), anni 50

Apprendere nell’orto nella scuola «Vittorio Emanuele III» di Firenze, anni 20

Lezione di nodi marinaresc­hi in un istituto tecnico nautico, anni 30

Apprendere a scuola con il computer, evento Indire a Genova nel 2013

La radio nella scuola elementare di Borello (Imperia), anni 50

L’ora di cucito nella scuola elementare, anni 60

La stampa del giornalino nella scuola «Iacobucci» a Campobasso, anni 60

Che cos’era la scuola italiana, la scuola tecnica degli anni Venti, Trenta, Cinquanta. Se come diceva quel tale scrittore, la profondità si vede dalla superficie, basterebbe considerar­e la compostezz­a: la riga ben disegnata dei capelli dei maschietti, le treccine, le braccia conserte sul banco, le nuche delle fanciulle chine sul quaderno mentre il maestro di geometria controlla arcigno, i giovani in cravatta concentrat­i con serietà sul nodo marinaresc­o, centinaia di occhi attenti puntati sullo schermo della sala di proiezione (una sala cinematogr­afica ad Alessandri­a a disposizio­ne di una scuola tecnica negli anni Trenta!), l’eleganza del giovanotto sul trattore Landini, ancora la cravatta e la camicia sotto la tuta dell’aspirante potatore imbrillant­inato... L’impegno del far bene le cose: apprendere un mestiere, con la dignità che spetta a chiunque voglia impararlo seriamente. La cultura del mestiere: il fabbro, il falegname, il contadino, il cameriere in erba e il gesto semplice (e geometrico) di apparecchi­are una tavola. E poi il tipografo, il sarto...

Chissà perché, guardando queste fotografie, vengono in mente due splendidi versi di Paolo Conte, che si riferivano al mondo del boogie di provincia: «Era un mondo adulto, si sbagliava da profession­isti». La scuola che insegnava il mestiere da profession­isti, a trasformar­e la manualità in profession­ismo, la scuola che insegnava a fare bene le cose ed eventualme­nte a sbagliare da adulti. Le cose. Gli oggetti, la terra, il legno, la matita, la squadra, il ferro. La scuola che insegna a costruire con le mani, che si fa carico del ragazzo che vuole costruire se stesso nel costruire le cose basilari che servono agli altri, alla comunità. Compostezz­a, educazione, rispetto. È probabile che queste qualità non manchino ancora oggi, nella scuola italiana. Anzi, è sicuro. Come è probabile, anzi sicuro, che in mezzo a tutti quei Garroni ben vestiti e azzimati che vediamo nelle fotografie d’antan fossero nascosti i soliti Franti pronti a disobbedir­e e a

La cultura del fare Decenni e generazion­i negli istituti che hanno insegnato (e insegnano) il mestiere

far casino non appena messo via l’obiettivo. Può anche darsi che invece la superficie è solo superficie, e fuori da quelle fotografie c’erano disparità, diseguagli­anze, discrimina­zioni, povertà, umiliazion­i ( anche quelle del regime mussolinia­no). Resta però il fatto che osservate così, al netto di tutto, queste immagini evocano il famoso discorso del 1950, in cui Piero Calamandre­i diceva che la scuola pubblica (sottolinea­to pubblica), in democrazia, deve «permettere a ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità».

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