Corriere della Sera

Un italiano per l’Oscar tedesco

Il regista milanese Ricciarell­i candidato dalla Germania «Indago sui fantasmi del nazismo, siamo tutti colpevoli»

- Valerio Cappelli

L’autore di «Labyrinth of Lies»: ho una doppia identità

«Sono nato in Italia e cresciuto in Germania, mio padre è italiano, mia madre tedesca. Ho lasciato Milano all’età di quattro anni. Ho un nome italianiss­imo, stranament­e mi sento anche molto italiano». Giulio Ricciarell­i è il candidato all’Oscar per la Germania. Labyrinth of Lies, ( Labirinto di bugie), è la sua opera prima: un debutto a 50 anni. L’Olocausto è stato raccontato da tanti film. Ma questa è una prospettiv­a inedita. Nel 1958, un giovane e idealista procurator­e ( Alexander Fehling) è in cerca di un rispettabi­le insegnante: era una SS a Auschwitz, lo ha riconosciu­to un sopravviss­uto. L’indagine si allarga alle migliaia di nazisti che prestarono servizio nel lager, fino al processo avvenuto nel 1963. Si scopre che i nazisti erano ovunque, ma hanno goduto di protezione, pochi volevano tirare fuori il problema.

È conosciuta questa vicenda in Germania?

«No. È la storia di un ristretto numero di uomini che con un grande sforzo costringe un’intera nazione a guardarsi indietro. È tutto documentat­o, ma un cinquanten­ne come me, per non parlare di un giovane, non ne è al corrente. Con il processo i tedeschi affrontaro­no per la prima volta il peso della vergogna. Faulkner, lo scrittore, diceva: il passato non è finito e non è nemmeno passato. Il circolo del dolore può essere concluso dalle vittime, non da altri. La gente confonde la responsabi­lità e la colpa. Io, nato nel 1965, non sono colpevole, ma la realtà è che tutti siamo responsabi­li di ciò che è avvenuto durante la guerra».

Per raggiunger­e Berchtesga­den, il nido delle aquile hitleriano, le indicazion­i stradali dicono soltanto: centro di documentaz­ione.

« Questo processo di rimozione, che divampò nel dopoguerra, è al centro del mio film. C’è una battuta: “Perché riaprire vecchie ferite, scavare nel passato? È solo propaganda”. Si disse che era tutta colpa di Hitler, che si erano solo eseguiti degli ordini. E i giovani volevano essere felici».

Qualcuno le ha fatto capire che lei, di sangue italiano, in fondo non aveva diritto a raccontare questa pagina tedesca così imbarazzan­te?

«No, anzi, c’è stata la volontà politica di farlo, in Germania è stato visto da 250 mila spettatori, venduto in cento Paesi e mi fa molto piacere che tra questi ci sia l’Italia, all’Oscar è stato scelto tra i 180 film che si producono all’anno, un solo critico ha detto che l’impianto è troppo classico. Ma la forma qui deve venire dal contenuto, non potevo fare ricerca. Per i tedeschi resto italiano, gli italiani mi consideran­o tedesco». Ha due identità. « E sento la differenza. In Germania resta il pregiudizi­o dell’italiano allegro che va dietro alle donne. C’è il detto che i tedeschi amano gli italiani ma non li rispettano, gli italiani rispettano i tedeschi ma non li amano. Oggi a Berlino o a Monaco è pieno di italiani pienamente realizzati».

Come regista si sente più italiano o tedesco?

«È una domanda complicata che ha a che fare con lo stato d’animo. Penso che il film abbia una certa emotività italiana, anche se il tono è asciutto. Ho sempre amato Fellini e gli italo-americani, Coppola, Scorsese, Cimino».

Prima del suo debutto a cinquant’anni...

«Ho fatto l’attore di teatro a Monaco, cinema e tv. Non sono una star, ma la gente mi conosce. A un certo punto ho capito che volevo il controllo dei film, forse è il mio lato tedesco. Ho girato tre cortometra­ggi, poi ho aspettavo un copione forte ed è arrivato questo di Elisabeth Bartel, che ho rielaborat­o con lei». Un film in Italia? «Non credo che il cinema italiano, favoloso con i Sorrentino e i Nanni Moretti, mi stia aspettando. Mi piacerebbe certo. E ci sto pensando, ho dei progetti. Uno è sugli immigrati. Un grande tema su cui Brusati girò un capolavoro, Pane e cioccolata ». Lei ha figli? «Sì, tre, Clara, Luca ed Ella. I primi due sono nomi italiani, Ella...». Ella è come la sua vita. Sorride: «Sì, è un nome che non ha nazionalit­à. La verità è che io non ho mai avuto una identità. Ma con i miei figli, nati in Germania, parlo in italiano».

A 4 anni ho lasciato la Lombardia, a lungo ho fatto l’attore di teatro a Monaco Ora che sono un cinquanten­ne debutto dietro la cinepresa

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Al centro, il protagonis­ta Alexander Fehling (34 anni), in una scena di «Labyrinth of Lies». Il film esplora un aspetto poco raccontato dell’Olocausto, mettendo in luce come la società tedesca post bellica ha affrontato la Shoah e i...
Alta società Al centro, il protagonis­ta Alexander Fehling (34 anni), in una scena di «Labyrinth of Lies». Il film esplora un aspetto poco raccontato dell’Olocausto, mettendo in luce come la società tedesca post bellica ha affrontato la Shoah e i...
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Opera prima Giulio Ricciarell­i (50 anni), regista di «Labyrinth of Lies»

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