Montezemolo: c’è fiducia ma ora serve una fase due
La vetrata dell’ufficio di Luca Cordero di Montezemolo si apre su uno degli scorci più eleganti di Roma, fra quelli non ancora raggiunti dai torpedoni dei turisti: gli impianti delle Olimpiadi del 1960. Qui è la sede del comitato per la candidatura di Roma 2024, che Montezemolo presiede e ora non vorrebbe vedere ostacolata dalle dimissioni di Ignazio Marino. «Nell’interesse della città, non dobbiamo fermarci», dice. Montezemolo di questi tempi divide il suo tempo con Alitalia, dove è presidente e ora anche amministratore delegato ad interim dopo l’uscita di Silvano Cassano.
Il progetto con Etihad ha solo nove mesi. Cosa non ha funzionato?
«Siamo in linea con il piano triennale, ma malgrado le molte cose fatte e quelle che annunceremo nei prossimi giorni, non è arrivata al consumatore la percezione del cambiamento. Non è facile. Alitalia era praticamente sull’orlo del fallimento. E questo è un mestiere difficilissimo, basta vedere i problemi di Air France o Lufthansa. Alitalia sta aprendo nuove importanti rotte internazionali, dove ha bisogno di un forte supporto di promozione dell’Italia. Possiamo fare molto per l’Italia e viceversa».
Dopo l’incendio di luglio, Fiumicino resta un cantiere aperto. Ci puntate ancora?
«Abbiamo pagato un prezzo elevato ma rimane la nostra base. Fiumicino è la porta dell’Italia per milioni di turisti. E poiché viviamo tutti di concorrenza, deve essere riportato al livello dei grandi hub internazionali. Stiamo lavorando con Aeroporti di Roma, chiediamo chiari e precisi impegni per uscire in fretta da questa situazione e avere una maggiore attenzione alle esigenze di Alitalia».
Il momento non sembra male. Lei nella ripresa ci crede?
«Sono state fatte cose che gli italiani hanno chiesto per trent’anni: le riforme istituzionali, la riforma del lavoro, l’alleggerimento fiscale e tante altre. E concordo con Matteo Renzi quando dice che se stiamo nei parametri europei, quello che si fa con le nostre tasse lo decidiamo noi. Questo premier ha portato dinamismo, coraggio decisionale e un ottimismo non di maniera. Il Jobs Act è stato un passaggio fondamentale, anche come segnale culturale per le imprese».
Però per certe riforme la legge non basta, perché poi vanno applicate sul tessuto del Paese. Secondo lei sta accadendo?
«Cambiare l’Italia in profondità è un’impresa titanica. Il suggerimento che mi sento di dare al presidente del Consiglio è che una volta che sarà passata la riforma del Senato, c’è bisogno di una fase due che vada a toccare tutti i nodi che ancora trattengono il nostro Paese». Che intende dire? «Veniamo da troppi anni di immobilismo di larga parte della struttura dello Stato. Adesso serve un violento, profondo intervento sui processi di funzionamento dell’amministrazione centrale e locale. Rimane poi la necessità di costruire un vero e proprio piano industriale per il Paese che identifichi priorità, obiettivi e azioni per conseguirli. Penso in primis al turismo, alla nuova manifattura e a un’accelerazione sulla concorrenza».
Quest’anno il turismo è in forte crescita, non trova?
«L’Expo è stata un successo: per l’iniziativa in sé, per quello che ha generato per Milano, per la visibilità del Paese. Però attenzione, in attesa di riuscire a portare le Olimpiadi del 2024 a Roma, dobbiamo pensare quale altra grande iniziativa può utilizzare questo straordinario traino. Non possiamo prescindere da un grande piano turistico — oggi inesistente — che valorizzi e promuova in modo innovativo i nostri siti artistici e culturali unici»
Un ministro del Turismo non c’è. Lei queste cose a chi le spiega?
«Al premier, quando ce n’è l’occasione, e devo dire che ho sempre trovato un interlocutore attento. Condivido il suo entusiasmo e se guardo i numeri penso anch’io che possiamo diventare il Paese trainante in Europa. Ma ci vuole uno sforzo immane. Questo può essere fatto solo da una squadra lunga e capace, nel governo e fuori. Per ora non la vedo».
Vuole dire che un uomo solo al comando non basta?
«Può servire all’inizio, ma dopo si deve vincere la gara e occorre un equipaggio capace. Non possiamo avere un gruppo di persone al governo che in certi casi sembra totalmente dipendente dall’impulso del premier». Vorrebbe ministri di maggior peso? «Sì, in alcuni casi, e chiarezza su priorità il più possibile condivise. La premessa è quella che ho detto: un energico ridisegno dell’amministrazione». Altre priorità, secondo lei? «Una, senz’altro, sono le infrastrutture. Il costo della logistica è terribile».
Si affronta meglio con più intervento pubblico o con più iniziativa privata?
«Con entrambi, se le regole sono chiare e trasparenti. Di sicuro abbiamo un livello di concorrenza troppo basso: dobbiamo aprire ai privati tante aree, nell’interesse dei cittadini. Me lo lasci dire come azionista Ntv: sull’alta velocità ci hanno creato barriere di ogni genere. Se vogliamo essere un Paese serio, si deve separare la rete delle Ferrovie dello Stato dalle società di servizi, sul modello Terna e Enel nell’elettricità. Altrimenti si ripetono errori del passato».
Veramente il progetto è di privatizzare il 40% di tutta Fsi, rete inclusa.
«Sono contrarissimo, resterebbe un’opaca commistione tra rete e servizio. Lo sviluppo della rete, che deve restare pubblica, può attrarre investimenti privati e — perché no — stranieri».
Invece Confindustria, che lei ha guidato a lungo, non deve adeguarsi ai tempi?
«Tutta la classe dirigente del Paese, pubblica e privata, ha le proprie responsabilità. Ma oggi guardiamo avanti con più fiducia. Siamo nella quarta rivoluzione industriale, in cui persino l’artigiano ha bisogno della stampante 3D e di una digitalizzazione del lavoro. Chi non adotta l’innovazione tecnologica nella manifattura viene travolto. E noi che siamo leader nell’automazione industriale, spesso composta da piccole e medie imprese, rischiamo di più. Dobbiamo trovare risorse per investire in un progetto di ampio respiro che oggi non si vede. La Borsa di Milano ha 350 aziende, contro le 928 di Parigi e 2400 di Londra. Eppure ogni anno le famiglie italiane producono 100 miliardi di risparmio, che non diventa mai capitale di rischio. Per questo dico che la politica industriale in Italia non può limitarsi alla gestione delle crisi aziendali». Plaude anche a Ferrari in Borsa? «La necessità di sviluppare il piano industriale di Fca ha determinato l’impellente bisogno di risorse. Comprendo l’operazione, a patto che non snaturi un’azienda dalle caratteristiche molto particolari. Si parla di una valutazione di dieci miliardi e sono orgoglioso che il lavoro fatto in questi anni dalle persone in Ferrari sia oggi così fondamentale per il futuro di Fca».
La prossima riforma? Un attacco deciso alle lentezze dello Stato Vorrei qualche ministro di maggior peso, non basta il solo premier Alitalia in linea con il piano, però Adr presti più attenzione