Giovani, poliglotti, versatili (e precari) Chi assume i 20 mila lavoratori Expo?
In maggioranza sono donne, il 41% ha la laurea. Il ruolo di agenzie interinali e aziende
Noi italiani siamo più bravi nel disegnare gli ammortizzatori sociali che nel dar vita a politiche attive del lavoro. E del resto quando si farà un’analisi comparata di come i vari Paesi hanno messo a frutto i finanziamenti europei per Garanzia Giovani questa verità (amara) verrà fuori. Il caso vuole però che ci si pari davanti una sorta di esame di riparazione: riuscire a collocare i 20 mila, per lo più giovani, che dall’inizio di novembre non lavoreranno più all’Expo. È un esame di riparazione favorevole perché questi ragazzi hanno skill professionali nettamente al di sopra della media dei disoccupati: una straordinaria disposizione alla mobilità territoriale, una capacità di adattamento testata lungo sei mesi di duro impegno, competenze digitali e la conoscenza di due o tre lingue. In più di molti di loro sappiamo tante cose, siamo in grado di «profilarli» e comunque una quota significativa ha lavorato con un tutor in grado di stilare una relazione per i potenziali datori di lavoro.
Si arriva alla cifra di 20 mila lavoratori Expo — esclusi i volontari che possono operare solo per due settimane una tantum — sommando i mille assunti dalla Expo 2015 Spa, gli altri 12 mila impegnati nei vari padiglioni/stand e i 7 mila impiegati nell’indotto. Dal punto di vista contrattuale almeno 6 mila di loro sono passati attraverso le agenzie private del lavoro, che li hanno assunti con contratti di somministrazione. Non ci sono cifre precise su quanti abbiano abbandonato il lavoro in questi mesi ma pare che il turnover sia stato contenuto, tra il 10 e il 15 per cento. Tutti gli altri hanno retto allo «stress test», al grande caldo estivo e al super-affollamento del finale.
Gabriele Cesarini è arrivato a Milano da Genova il giorno dopo la laurea, aveva già maturato un’esperienza da volontario e interprete alle Olimpiadi invernali russe di Sochi. Sul bagde porta la scritta «organiser» e la maggior parte del suo lavoro consiste nel gestire i flussi di visitatori. La paga base è di 900 euro per 8 ore per 5 giorni alla settimana, ma con le maggiorazioni Gabriele è arrivato a guadagnare 1.200-1.300 euro. Ne ha spesi 300 al mese per un posto letto («sono stato fortunato perché chiedevano anche 600»). L’Expo non sembra averlo stancato e già cerca un nuovo ingaggio dal primo di novembre: ha mandato in giro una trentina di curriculum e sogna di lavorare in un’ambasciata o in consolato. «I momenti più difficili? Tenere a bada le persone che non volevano fare le code e in qualche caso minacciavano di sfondare i tornelli. Avrei preferito lavorare più a contatto con i contenuti della manifestazione ma non mi lamento».
Se dovessimo definire con il linguaggio delle risorse umane l’esperienza che i tanti Gabriele hanno fatto nel Decumano potremmo parlare di capacità di «gestire la complessità», un’esperienza che ha prodotto autostima ma dovrebbe anche fare curriculum. «Ci è capitato di tutto e di più» racconta Juri Sbrana, un pisano di 34 anni che per correre l’avventura Expo ha lasciato un lavoro a partita Iva di gestione di piccoli alberghi. «Ero stufo di stare in provincia e mi sono detto che questa era la mia grande occasione». Juri è un team leader, si è trasferito a Milano 72 ore prima che si aprissero i cancelli e la prima sera al Nord non sapeva dove dormire, come gli emigranti dei tempi di Rocco e i suoi fratelli. Poi ha affittato un monolocale a Sesto San Giovanni e adesso ha deciso di rimanere due mesi in più a Milano per cercare un lavoro stabile. «Come tanti mi aspettavo una mansione a maggior contenuto intellettuale e invece mi è capitato di dover chiamare l’Amsa per sgombrare i rifiuti o vestirmi da cartellone umano. Ma ho sviluppato una capacità di adattamento che non conoscevo e ho fatto un’esperienza che a Pisa non mi sarebbe capitata». Andrea è invece una ragazza spagnola che dalle Canarie si è trasferita anni fa in Italia (per amore). Ha vissuto a Ferrara per più di tre anni lavorando in un’organizzazione non profit. Il resto del tempo l’ha passato nel precariato più totale saltando di occupazione in occupazione, compreso un tirocinio al Comune di Genova. «Quando parliamo di curriculum non dimentichiamo la dimensione umana. Qui abbiamo avuto a che fare con gente di tutto il mondo e ce la siamo sempre cavata. Anche per me le aspettative erano diverse ma non sono delusa. Ho maturato competenze trasversali fino alla capacità di prendere insulti rispondendo con un sorriso».
In questi mesi il sindacato è stato presente a Rho per ovviare ai problemi sorti via via (casi di lavoro sommerso o pagamenti ritardati), ha tenuto assemblee ma non ha avuto bisogno di indire scioperi. «Molto lavoro l’abbiamo fatto — racconta Daniel Zanda, segretario della Felsa-Cisl — spiegando ai ragazzi che cosa vuol dire lavorare in somministrazione. A cominciare dal diritto all’indennità di disoccupazione, il Naspi, che copre tre mesi al 75% della paga base». Se ci stacchiamo dal sindacato e dalle storie individuali, e passiamo ai numeri di una ricerca-campione su 3.800 lavoratori elaborata da Manpower, possiamo sapere che le donne sono la maggioranza (55%), che il 41% possiede una laurea lunga o breve, che gli under 29 sono il 58% e
gli over 40 solo il 15%. La provenienza geografica prevalente è il Nord Italia con l’82%, 7% dal Centro e 11% dal Sud e dalle isole. Dal punto di vista delle mansioni possiamo dividere l’universo dei ragazzi Expo grosso modo in tre gironi: il primo degli «area team leader» e degli «operatori grandi eventi» che hanno il compito di interagire con i visitatori e governare i flussi ai tornelli e l’accesso ai padiglioni, il secondo è composto dalle «guide turistiche» e dagli «addetti all’accoglienza» dislocati nei vari stand nazionali e infine il terzo raccoglie gli «addetti alla ristorazione e allo street food», in prevalenza camerieri. Alcuni Paesi hanno portato giovani direttamente da casa, molti altri li hanno assunti qui.
Ma la domanda vera è: ce la faremo a trovar lavoro a questa piccola aristocrazia del precariato giovanile? Per le agenzie del lavoro è sicuramente un bel banco di prova. Si lamentano che spesso — specie in tv — vengono demonizzate come sinonimo di sfruttamento e ora hanno l’occasione di mostrare la qualità della loro cultura aziendale, far vedere a tutti che il privato nel mondo del lavoro sa apportare efficienza laddove lo Stato è quantomeno pigro. Vale per Manpower che ha vinto a suo tempo la commessa Expo e quindi è particolarmente coinvolta ma anche per le altre, a cominciare dall’italiana Gi Group che infatti è stata la prima a raggiungere un accordo-guida con le organizzazioni sindacali sulla ricollocazione.
Stavolta non si potrà dare la colpa al ministero, le politiche attive del lavoro non hanno alibi. Manpower organizzerà inizialmente un portale al quale si potranno registrare i giovani. Ci sono contatti con Expo per allargare a 360 gradi l’iniziativa — sia a tutti i ragazzi sia ad altri operatori — e si spera in un secondo tempo di coinvolgere anche Assolombarda e Regione Lombardia. È chiaro che i mille assunti dalla società Expo 2015 Spa hanno maggiori garanzie, previste al momento dell’ingaggio, ma la sfida sarà mettere in condizione tutti i 20 mila di giocarsela accettando di continuare la formazione via computer o in aula. Più il curriculum dei singoli disporrà di elementi di valutazione individualizzata, magari sostenuti dalle relazioni dei coach, più i ragazzi saranno forti nel proporsi. Ed è questa forse la novità più rilevante del moderno mercato del lavoro: una volta si chiedeva di collocare i lavoratori a stock, oggi si è capito che più sono profilati più sono appetibili.
Ho fatto un’esperienza che a Pisa non mi sarebbe capitata, spero di restare
Juri Ho imparato tanto, anche a prendere insulti e rispondere con un sorriso
Andrea