Mancini, poeta degli scugnizzi che non resse alla mondanità
Sussurri e grida «Flirtation, Hyde Park», 1874, di Giuseppe De Nittis. Con acutezza psicologica, il pittore restituisce l’attimo (fatale) del corteggiamento, il bisbiglio, la complicità quasi invisibile Suoni di giovinezza «Saltimbanque Joueur de violon Joueur de guitare», di Antonio Mancini (1877), uno dei quadri esposti nella mostra milanese allestita alla Gam Manzoni i tratti deformati dalle allucinazioni, smette di dipingere per un anno, dal 1881 al 1882. Ha appena trent’anni!
Poi la svolta: riprende furiosamente a ritrarre, quasi scortica la tela, con quella mania che poi gli varrà l’ammirazione dei londinesi e, soprattutto, degli irlandesi. Perché Mancini, nel 1907, «conquista» Dublino: all’epoca la città cercava un baricentro culturale scavando anche nello stile italiano e i suoi ritratti colpirono molto il poeta William Butler Yeats.
Fu lui, dunque, un poeta (e paradossalmente non un critico d’arte) a cogliere l’intima natura di Mancini: Yeats lo accostò al Cortegiano di Baldassarre Castiglione e alla sua «sprezzatura», ovvero la capacità di fare grandi e raffinate cose con il minore sforzo possibile. Perché quei volti uscivano dalla mano dell’italiano come se non avessero mai avuto altra sorte plausibile.
Mancini avrà il riscatto della sua vita vissuta in follia: da Parigi a Londra a Roma a Venezia gli verranno tributati onori e riconoscimenti, nel 1920 la Biennale di Venezia gli dedicherà una personale. Alla fine, nel 1930, non gli rimarrà che morire, ma prima volle congedarsi a modo suo: con un Autoritratto con turbante rosso, estremo tentativo di mettere in scena l’opera buffa di un uomo molto solo, molto fragile, molto nudo.