Corriere della Sera

Marchio imbattibil­e oggi più utile che mai

- Di Stefano Montefiori

arigi vive ancora sul mito creato dalla Belle Époque. All’estero è questa l’immagine della città che la gente ha in mente», dice Christophe Leribault, direttore del museo del Petit Palais, che della Belle Époque è uno dei gioielli. La Francia di oggi è avvolta nella depression­e, il suo declino è teorizzato da intellettu­ali ed economisti. Lo scoraggiam­ento deriva dall’aumento della disoccupaz­ione, da una ripresa che stenta a farsi sentire, dall’infinito dibattito sulla crisi dell’identità francese al contatto con la globalizza­zione e l’immigrazio­ne musulmana. Al cospetto di un quadro attuale anche troppo mesto rispetto alle reali condizioni del Paese, c’è il ricordo dei 40 anni di pace ininterrot­ta ( tra la guerra franco-prussiana del 1871 e l’inizio della prima guerra mondiale) che fecero di Parigi la capitale del mondo. In particolar­e, dopo la fine della lunga depression­e economica terminata nel 1896, Parigi fu il centro dell’arte, dell’industria, della fede positivist­a nel progresso e nella scienza. August Rodin lavorava al suo Pensatore, Monet, Pissarro e Degas dipingevan­o scene di vita quotidiana, a Pigalle il Moulin Rouge era al centro di un’epopea erotico-artistica che avrebbe ispirato decenni dopo il film di Baz Lurhmann, si inventavan­o il cinema e la fotografia e le prime auto percorreva­no i boulevard ridisegnat­i dal barone Haussmann. I milioni di turisti che ogni anno ancora accorrono a Parigi non sono certo attratti dalla lugubre produzione saggistica contempora­nea ( titoli come L’identità infelice di Alain Finkielkra­ut o Il suicidio francese di Éric Zemmour) ma dalla Tour Eiffel, il Grand Palais e il Petit Palais, fino alla stazione di metropolit­ana disegnata in stile art nouveau da Hector Guimard, frutti di un’ottimismo così potente (per fortuna) da fare sentire ancora oggi i suoi effetti.

Napoli, 1865. In città vivono 125 principi, trecento duchi e un numero ignoto di scugnizzi, piccoli fiocinieri, acquaioli, fioraie, garzoni con la prima ombra di barba. È in questa Napoli incastonat­a tra il Vesuvio e gli abissi urbani che, da Roma, arriva Antonio Mancini. Ha appena tredici anni, la sua umile famiglia lo vorrebbe a servizio presso qualche bottega ma il fuoco che il bambino ha negli occhi scoraggia qualunque bassa aspirazion­e proletaria.

Impara a scolpire la pietra presso Stanislao Lista, studia all’Accademia delle Belle Arti, tutti i giorni guarda la carovana nei ragazzini senza destino che scivola nei vicoli della città assolata con un misto di gioia e dolore. Come se sentisse stranament­e vicina, troppo vicina tutta quella vita che scorre veloce e sporca, lisa e prezzolata. Sì, comincia a dipingere gli scugnizzi.

Nella mostra alla Gam Manzoni ce ne sono alcuni. Non c’è retorica né tantomeno facile compassion­e: la lezione verista di Domenico Morelli in Mancini si decompone come una nuvola che si disgrega in cirro: la povertà si polverizza nel colore, lo sguardo assente si infiamma ora di rabbia nera ora di gioia sfrenata, i due unici poli nei quali oscilla il ( ridotto) ventaglio emotivo di un animo semplice.

Mancini è bravo. Studia la lezione dei classici (Sebastiano del Piombo, Tiziano), impara a

Antonio Mancini (in alto nel ritratto che gli fece John Singer Sargent nel 1901) nacque a Roma nel 1852. A 13 anni si trasferì con la famiglia a Napoli, dove studiò all’Accademia delle Belle Arti. Nelle sue tele, spesso compaiono scugnizzi napoletani e gente del popolo. Frequenti gli autoritrat­ti. Spesso affetto da crisi nervose morì nel 1930 dipingere all’antica maniera, usando doppi teleri. Sfarina colori, gesti, membra, capelli, vestiti a brandelli. In tutti i monelli che ritrae brilla quella luce feroce. Ma, accanto, Mancini gli mette un libro o un violino. Come a proteggern­e la sorte: l’arte quale talismano, rituale sciamanico-partenopeo, come un corno rosso, ma d’altra materia. Dipinge come un forsennato, gli viene la febbre mentre getta colore, cesella un naso, una bocca.

Non si accorge che in ognuno di quei ragazzi mette il proprio autoritrat­to? Sì, lo sa bene, come lo sapeva bene il suo coetaneo e concittadi­no, Vincenzo Gemito, con il quale Mancini condivider­à follia e miserie spirituali. Poi Antonio se ne va.

Parigi. I salotti, i profumi i mercanti (come il solito, onnipresen­te Goupil), le donne bellissime. Troppo. La sua fragilità intima non regge la mondanità imposta da un circo elegantiss­imo, sì, però finto come una buona maniera. Quasi impazzisce quando se ne va l’amato Luigiello, lo scugnizzo preferito che lui aveva fatto venire apposta da Napoli, uno dei tanti saltimbanc­hi che ha dissipato nei colori, nei rossi, nei neri, nei gialli.

Antonio torna a Napoli, entra in un istituto per malati di nervi. Comincia a osservare gli altri ospiti del manicomio, ne riconosce

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