Corriere della Sera

Taranto e l’Ilva: agonia di una città

- Di Goffredo Buccini

Viaggio a Taranto, la città dell’Ilva. Nonostante i decreti di salvataggi­o e l’amministra­zione controllat­a prorogata fino al 2017, l’agonia dell’Ilva sta tirando a fondo una città da cui chi può scappa.

Qui la disperazio­ne è tra i pochi lavori rimasti, ormai. Alla «Masseria Carmine», che nel 2008 ebbe 604 pecore avvelenate dalla diossina, sabato hanno inaugurato una discoteca all’aperto, The Key; un successone: centinaia di ragazzi hanno fatto l’alba ballando musica house sotto le stelle e i fumi delle ciminiere, che dagli altiforni dell’Ilva si levano proprio lì accanto e forse non hanno mai smesso di inquinare. Il padrone, Vincenzo Fornaro, dice: «Dobbiamo pur sopravvive­re dopo che ci hanno devastato l’allevament­o! Così facciamo di tutto, pure la disco». Allarga le braccia davanti alle transenne dell’aula Alessandri­ni, dove la Corte d’assise di Taranto ha aperto (e rinviato al 1° dicembre) il più grande processo per disastro ambientale della nostra storia: 47 imputati (assieme alla famiglia Riva e ai manager dell’azienda, i vertici della politica cittadina e regionale con in testa Nichi Vendola), mille parti civili, trenta miliardi di richiesta di risarcimen­to che alla fine costituira­nno l’ipoteca più drammatica sul già precario futuro dell’acciaieria.

Nonostante i decreti di salvataggi­o e l’amministra­zione straordina­ria prorogata al 2017, nonostante gli sforzi del governo e un miliardo e 200 milioni di euro offerti in garanzia alle banche, l’Ilva in agonia tira a fondo una città da cui chi può scappa. A produzione piena l’acciaieria inquina troppo, a produzione ridotta non campa più: il rebus che porta a esuberi e chiusure dell’indotto sta tutto qui. «Un negozio su due in centro ha abbassato le saracinesc­he», racconta cupo il presidente degli industrial­i, Vincenzo Cesareo: «Quando cercavamo di spiegare ai commercian­ti che il disastro della fabbrica si sarebbe abbattuto sui consumi e su tutti, non siamo stati ascoltati. Beh, dopo le boutique di camicie e scarpe adesso chiudono le panetterie, nemmeno il pane riesce a comprare la gente». Gli imprendito­ri ad agosto hanno persino organizzat­o una manifestaz­ione con megafoni e slogan. Il governo l’altro ieri ha buttato sul tavolo una fiche da 800 milioni, tutti già annunciati e in parte già impegnati. Sarebbe poca cosa (per il salvataggi­o di Taranto Vecchia, potenziale gemma turistica, nove milioni di euro sono una posta ridicola e non si vedono seri progetti all’orizzonte), ma è comunque un segnale.

Michele Emiliano sostiene che bisogna preparare un «piano B»: «Se malaugurat­amente l’Ilva non va più avanti bisogna finanziare una città polifunzio­nale», cioè non votata solo all’acciaio, una parola. E tuttavia, da presidente della Puglia, Emiliano vuole vedere il bicchiere mezzo pieno. Loda il «tavolo del governo». Giura che i tarantini hanno «così tanta fiducia nella magistratu­ra» da ritenere superfluo presentars­i alla prima, assai simbolica, udienza del processo «Ambiente Svenduto». E infatti, eccetto avvocati, giornalist­i e parti lese, non compare quasi nessuno davanti al tribunale, tranne un tenace vecchietto dei Cobas che inalbera uno striscione, stella rossa sul berretto, malinconic­o come un fumetto di Staino.

Francesca Caliolo c’è. La fabbrica le portò via il marito Antonino Mingolla, lei ha visto condannare in primo grado i colpevoli. «Sono emozionata, ma la città fuori non s’è presentata. C’è rabbia, sì, ma è un sentimento privato, non collettivo. Vede, ci hanno traditi: Vendola e la sua sinistra ecologista per primi». In udienza appare Franco Sebastio, il procurator­e, vera croce degli inquinator­i che cominciò a perseguire da pretore trentenne. «Beh, sì, questa per me è una giornata particolar­e». Hanno provato ad addossargl­i il tracollo della fabbrica, secondo il noto teorema per il quale la colpa non è di chi commette i reati ma di chi li persegue. Sebastio, nella richiesta di rinvio a giudizio che ancora oggi mette i brividi a rileggerla, calcolava (perizie alla mano) in 8 miliardi la cifra che i Riva non hanno investito in vent’anni sulle bonifiche e gli ammodernam­enti dell’acciaieria. Un Everest impossibil­e da scalare adesso, mentre la produzione crolla a 4,6 milioni di tonnellate. Così l’ «ambientali­zzazione», oltre a essere un neologismo impronunci­abile, è una specie di araba fenice, tutti la citano ma nessuno ci crede davvero.

Questo sentimento moltiplica in città gli effetti della crisi nazionale. Dunque il porto arranca, spariscono marchi come Evergreen e Marcegagli­a, i call center rischiano di buttare per strada tremila addetti, i lavoratori di Isola Verde occupano per protesta la centraliss­ima chiesa del Carmine, ospitati e nutriti da quel don Marco Gerardo già condannato per favoreggia­mento dell’Ilva in un primo stralcio del processo. Taranto è due volte simbolo del Sud: prima del suo sviluppo sbagliato, ora del sottosvilu­ppo incombente. Aurelio Rebuzzi, papà di Alessandro, morto di fibrosi cistica a 16 anni, s’è messo in mano agli usurai per costruire al figliolo un monumento funebre «che contenesse anche i suoi giochi». Amedeo Zaccaria, inseguito dalle tv, ha al collo la foto del figlio Francesco, caduto con una gru da 60 metri quando una tromba d’aria si abbatté sul molo dell’Ilva. Mormora che s’è dovuto «togliere dalle parti civili». Ha chiuso una transazion­e a una cifra notevole, dicono, ma lui rifiuta di svelare quale. Giura di aver ceduto all’Ilva per finanziare una borsa di studio a nome di Francesco, «valore 1.500 euro»: «Non è facile reggere anni aspettando giustizia, sai?». No, e lo è meno ancora in una città che la disperazio­ne la compra e la vende. A mezzogiorn­o arriva al porto la nave spagnola Rio Segura, con seicento profughi e otto cadaveri. «Diventerem­o un hub per migranti», dicono i tarantini. L’ultima risorsa, i disperati più disperati di te.

In Aula Inizia con un rinvio a dicembre il più grande procedimen­to per disastro ambientale La disperazio­ne La rabbia della gente e le consideraz­ioni degli industrial­i: chiude tutto, anche le panetterie

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È il tempo durante il quale le emissioni nocive dell’Ilva (sopra), avrebbero causato quasi 400 morti
Tredici anni È il tempo durante il quale le emissioni nocive dell’Ilva (sopra), avrebbero causato quasi 400 morti

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