Corriere della Sera

LE COLPE EUROPEE

- Di Franco Venturini

Utilizzand­o tutti gli strumenti del potere, anche i più spregiudic­ati, Recep Tayyip Erdogan ce l’ha fatta: nel nuovo Parlamento turco eletto ieri il capo dello Stato avrà la maggioranz­a assoluta e potrà forse rastrellar­e i seggi supplement­ari che gli servono per modificare la Costituzio­ne e varare un presidenzi­alismo privo di validi contrappes­i. Il fondatore del partito islamico Akp ci aveva già provato nello scorso giugno, ma il responso delle urne lo aveva punito privandolo di un primato che resisteva da tredici anni.

Cosa è dunque cambiato, cinque mesi dopo, in questa Turchia che smentisce la sua voglia di aria nuova? È cambiato che il regista Erdogan, il «Sultano» Erdogan come lo chiamano i suoi avversari, ha dato libero sfogo alla sua strategia della paura trasforman­do le elezioni in un referendum. Il voto per il partito del presidente era un voto per la stabilità. Il voto per le opposizion­i era un voto per l’insicurezz­a, per il conflitto permanente. Non per nulla dopo la sconfitta di giugno Erdogan aveva silurato la nascita di un governo di coalizione, aveva ripreso la guerra con i curdi del Pkk, aveva violato la libertà d’informazio­ne e altri diritti civili, aveva assistito dall’alto a una serie di sanguinosi attentati culminati nella strage di Ankara del 10 ottobre dove avevano perso la vita centodue oppositori pacifisti.

Enel contempo Erdogan si era schierato contro l’Isis, da buon alleato Nato aveva concesso il libero uso della base aerea di Incirlik agli Usa, era diventato arbitro dei tentativi negoziali sulla Siria. Un leader che recuperava la sua statura internazio­nale mentre all’interno mostrava pochi scrupoli nello spaventare gli elettori, aveva molte probabilit­à di vincere. E così è stato. I tormenti della Turchia, beninteso, non finiscono qui. L’opposizion­e dei laicisti che invocano Kemal Ataturk non sparirà come non sparirà quella dei curdi pacifisti, la guerra con il Pkk continuerà, l’economia in crisi avrà difficoltà a riprenders­i, il rispetto dei diritti civili correrà vecchi e nuovi pericoli. Ma per noi europei la posta in gioco non finisce qui.

Non è più l’ora delle ipocrisie comunitari­e. La verità è che i flussi migratori si stanno rivelando un grimaldell­o capace di portare l’Unione Europea alla disgregazi­one sull’altare dei nazionalis­mi emergenzia­li o, ancor peggio, etnico-religiosi. E i più destabiliz­zanti di questi flussi, quelli che seguono la «rotta balcanica» per puntare al cuore del Continente, transitano dalla Turchia. Vengono dalla Siria, dall’Afghanista­n e da altre contrade in fiamme. E percorrono la Turchia per poi gettarsi nell’Egeo e tentare di raggiunger­e le isole greche, territorio della Ue. Chi sopravvive troverà altri ostacoli e tanti muri, ma la chiave che minaccia tutta l’Europa, anche noi italiani che abbiamo a che fare con i flussi dalla Libia, si trova in Turchia. Lì vivono sotto sorveglian­za due milioni di profughi, che Ankara può trattenere o incoraggia­re a partire. Lì le massime autorità possono rendere più o meno massiccio il passaggio dei nuovi venuti che sognano Berlino o Stoccolma. E di nuovi venuti ce ne sono in abbondanza, soprattutt­o dalla martoriata regione di Aleppo.

Quando Angela Merkel si recò da Erdogan, il 18 ottobre, furono in molti a pensare che con lei era l’Europa intera che andava a Canossa. La realtà è invece che la Cancellier­a tedesca, neofita del decisionis­mo impopolare, dette allora una nuova prova del suo coraggio politico. Mentre alcuni dei suoi compagni di partito aspettano seduti sulle rive della Sprea, lei ha posto con chiarezza a Erdogan le esigenze di una Europa frammentat­a culturalme­nte prima ancora che politicame­nte. E ha ascoltato le contropart­ite che il «Sultano» ha chiesto: miliardi di aiuti, visti facili, accelerazi­one del negoziato di adesione alla Ue. Impegni indispensa­bili per dare tempo all’Europa e al suo terribile 2017 (elezioni tedesche, francesi e referendum britannico).

Pensando ai suoi valori, quelli che ancora sopravvivo­no, l’Europa avrebbe dovuto augurarsi una parziale sconfitta di Erdogan e un governo allargato. Pensando ai suoi malanni, l’Europa che Angela Merkel rappresent­ò ad Ankara il mese scorso ha segretamen­te tifato per Erdogan. Per la credibilit­à delle promesse fatte, per la stabilità del potere. Ora che le urne hanno parlato e che Erdogan ha vinto, non è però il caso di esultare. Perché se abbiamo gran bisogno di un autocrate la colpa è soltanto nostra.

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