Corriere della Sera

Pasolini e il «Corriere» Storia di una relazione

Il polemista senza paura e il giornale della borghesia milanese Un binomio inscindibi­le fin dal primo articolo del 7 gennaio 1973

- Di Paolo Di Stefano

Il caso Pasolini non si è mai chiuso, e probabilme­nte non si chiuderà. Vuoi per lo scandalo che fu la sua vita, per la sua omosessual­ità, per la sua morte violenta e per la conseguent­e questione giudiziari­a, rimasta ancora oscura; vuoi per la potenza della visione del mondo che Pasolini ha espresso senza risparmio di energia nella sua multiforme e caotica attività creativa: poesia, narrativa, teatro, cinema, giornalism­o. Guardando ai due anniversar­i di quest’anno, va riconosciu­to, piaccia o no, che non c’è confronto possibile tra Calvino (morto nel 1985) e Pasolini (dieci anni prima). Tra lo scrittore illuminist­a della leggerezza e della velocità e lo scrittorep­rofeta che ha buttato dentro la letteratur­a il suo corpo e la sua chiarovegg­enza, senza dubbio la memoria collettiva ha preferito quest’ultimo, cui sono tributate celebrazio­ni innumerevo­li. Mentre gli omaggi a Calvino sono rimasti nei limiti dell’ordinaria amministra­zione, pur trattandos­i di uno degli scrittori più giustament­e amati, studiati e frequentat­i nella scuola. Due figure centrali del secondo Novecento, e due figure opposte: l’uno morì come (non) sappiamo la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 al Lido di Ostia, l’altro in ospedale in seguito a un ictus; l’uno vittima di un massacro, l’altro per un’implosione cerebrale; Calvino lavorò di sottrazion­e e di levigatezz­a, Pasolini lavorò per singulti e accumulazi­one, basta pensare all’ultima sua opera, incompiuta ma programmat­icamente esorbitant­e e magmatica, Petrolio. Tutto ciò che riguarda Pasolini è esorbitant­e e magmatico, forse anche la sua ricezione. Per non dire che ogni volta il suo nome accende l’ipersensib­ilità dei complottis­ti e quella simmetrica (e spesso sbeffeggia­nte) dei non complottis­ti.

Certo Pasolini è ancora vivo e presente per il mistero che si porta dietro, ma anche per la passione e la sincerità con cui ci ha parlato. Soprattutt­o dalle colonne del «Corriere». Perché soprattutt­o? Perché l’incontro tra Pasolini e il «Corriere » è stato uno dei pochissimi incontri fatali passati alla storia del giornalism­o come una sorta di identifica­zione reciproca e paritaria. È uno dei tanti paradossi pasolinian­i. Un polemista che già da anni aveva avuto modo di esibire sui giornali la sua intrattabi­lità e la sua irriducibi­le scorrettez­za politica (ben diversa da quella che impazza oggi), un polemista senza paura, ostracizza­to e ampiamente perseguito dalla giustizia penale, che viene accolto tra le braccia del giornale della borghesia milanocent­rica perbenista (di destra ma anche di sinistra), quella stessa borghesia verso la quale Pasolini aveva dichiarato «un odio patologico», del resto ricambiato. Si narra che le cose siano andate così: il vice direttore Gaspare Barbiellin­i Amidei propone la firma di PPP a Piero Ottone, che risponde «Va bene, proviamo», forse per una sua strategia politico-editoriale, forse per convinzion­e ideale, forse senza rendersene ben conto e sicurament­e dopo aver consultato la proprietà. Fatto sta che quel matrimonio, avviato con il primo articolo del 7 gennaio 1973, è destinato a creare un binomio pressoché inscindibi­le fino alla fine: al punto — ed è questo il paradosso di cui si diceva — che l’immagine del «Corriere» anni 70 finirà per richiamare, quasi per riflesso automatico, quella del «corsaro» Pasolini. E diventa oziosa la domanda che sta dietro ogni matrimonio più d’interesse che d’amore: su chi dei due coniugi alla fine ne abbia ricavato maggiori vantaggi. Se cioè l’idea di liberalità e di apertura consegnata dal giornale di Ottone al pubblico inquieto di quegli anni, oltre che alla futura memoria storica, sia a conti fatti superiore all’incremento di ascolto (e di fama) che Pasolini ottenne dalla «generosa» ospitalità. Che si sia trattato di una relazione pericolosa ma felice, non c’è dubbio, anche se Pasolini e Ottone non si incontraro­no mai.

Sin dal primo intervento, sui giovani capelloni, l’eco fu enorme. E comunque quegli attacchi (da destra e da sinistra) non facevano altro che dare nuovi argomenti alla vis polemica pasolinian­a. Se questo accadde per il discorso sui capelli («la loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è difendibil­e, perché non è più libertà»), figurarsi che cosa succedeva ogni volta che Pasolini in prima pagina, nella Tribuna aperta (la testata di rubrica sotto cui veniva collocato ogni suo intervento, quasi a mitigare la responsabi­lità del giornale), prendeva la parola su temi politici. Un impolitico che parlava di politica. Contro il neocapital­ismo, l’omologazio­ne, il genocidio culturale, la Chiesa, la contiguità tra fascismo e Democrazia cristiana, le collusioni del potere con la mafia, contro le ambiguità opportunis­tiche del Pci e poi contro l’aborto. Spesso facendo nomi e cognomi.

Militante — ha scritto Cesare Segre — di un partito che ha in lui il solo rappresent­ante: ma a cui viene dato un ascolto mostruoso. Attività polemica febbrile (e spesso fuori controllo) di un intellettu­ale che colpisce i suoi obiettivi senza calcoli, anzi mettendo in campo la propria disperazio­ne individual­e («disperazio­ne» è una parola che ricorre di continuo nei suoi articoli). Come offrendo il proprio corpo in nome della difesa di valori culturali e civili che sente sulla pelle. Posseduto dalla propria idea e dal proprio sentirsene eroe e vittima sacrifical­e. Del resto, Pasolini è passato via via negli anni per un estremista di sinistra, un pressapoch­ista, nostalgico e reazionari­o di destra, elegiaco e passatista, provocator­e e martire, profeta geniale e impavido, unico autentico fustigator­e del carattere italico. Tutto e il contrario di tutto. Il male e il bene, il peggio e il meglio. Un’altra differenza rispetto all’unicità di Calvino è che la sua unicità resta inimitabil­e, e la sua eredità senza eredi.

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 ??  ?? Studio Pier Paolo Pasolini ritratto alla scrivania nella sua casa romana di via Eufrate, quartiere Eur, a metà degli anni Sessanta (foto Archivio Corsera). Lo scrittore acquistò l’appartamen­to, l’ultimo in cui abitò, nel 1963
Studio Pier Paolo Pasolini ritratto alla scrivania nella sua casa romana di via Eufrate, quartiere Eur, a metà degli anni Sessanta (foto Archivio Corsera). Lo scrittore acquistò l’appartamen­to, l’ultimo in cui abitò, nel 1963

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