Corriere della Sera

UN SINODO DI CAMBIAMENT­O MA SERVE PIÙ CORAGGIO

Papa Francesco ha offerto una grande lezione ecclesiale ma per rinnovarsi davvero non basta introdurre metodi nuovi Bisogna approfondi­re la discussion­e di contenuti fondamenta­li come il «regime familiare». Altrimenti si rischia di andare verso una Chiesa

- di Luca Diotallevi

Retromarci­a Il dibattito sul divorzio ha mostrato che si privilegia­no percorsi a ritroso

Nel discorso per il 50° della istituzion­e del Sinodo dei vescovi ed in quello al termine dei lavori dedicati alla famiglia, papa Francesco ha offerto una grandissim­a lezione di stile ecclesiale, con due perni: discernime­nto e sinodalità. Discernime­nto significa che la fedeltà della Chiesa deve essere anche attenzione ai segni dei tempi (il Signore potrebbe chiederci cose che sino a ieri ci aveva vietato: sant’Agostino). Sinodalità significa Chiesa come «piramide rovesciata». Chi nella Chiesa presiede non possiede, ma serve affinché ciascun battezzato raggiunga la salvezza «liberament­e ed ordinatame­nte» ( Lumen gentium 18, si noti l’ordine degli avverbi). In discernime­nto e sinodalità vive e rivive il metodo del Concilio.

Quando però si viene ai contenuti qualcosa cambia. A volte le parole sono ancora quelle del pezzo di tradizione di cui invece, seguendo il Concilio, si è abbandonat­o lo stile. Così ad esempio: l’uomo deve proteggere la donna (n. 28 della Relazione finale) e la famiglia deve creare e mantenere ordine nella società e nella Chiesa (n. 12); in un contesto di velato familismo manca ogni autocritic­a sulle responsabi­lità dei cristiani di ogni ordine e grado verso un regime familiare a causa del quale molti hanno sofferto. Soprattutt­o, fa pensa- re il confronto con i testi del Vaticano II. Lì si partiva dalle qualità proprie dell’amore coniugale (naturali e sacre insieme, Gaudium et spes 47), non si taceva del valore e della dignità di quella che Giovanni Paolo II chiamò poi la liturgia dei corpi, e ciò dettava la prospettiv­a sulla famiglia.

Oggi, pur essendo al centro del dibattito il matrimonio, il discorso compie il forse meno sconvolgen­te cammino inverso. Perché? Forse perché, se il matrimonio è segno del Regno di Dio, allora in qualche modo l’apparato ecclesiast­ico ne è relativizz­ato. Forse perché, persino nel rito, i ministri non sono i preti, ma uomini e donne normali. Forse perché alla amicizia coniugale il Signore chiede anche di rompere i legami più rassicuran­ti della famiglia d’origine («lascerà il padre e la madre»). Insomma è un po’ come se il coraggio che la Chiesa di Francesco mostra nel recupero dello stile del Concilio si attenui a proposito dei contenuti — se mai fosse possibile separare gli uni dagli altri — (e quello del matrimonio non è l’unico caso). Forse è anche in questo che trova alimento lo strano fenomeno di una presa di distanza silenziosa e crescente dalla Chiesa di un Papa che piace (un trend che Francesco ha trovato, non prodotto).

Chiedere più generosa attenzione al singolo caso, non solo è doveroso, ma non meritava un sinodo tanto è verità biblicamen­te fondata. Ciò che ancora non è stato detto è il positivo: è la santità della potenza destabiliz­zante dell’amore vero che coinvolge la carne, la mente e l’anima di un uomo e di una donna (senza nulla togliere alle bontà proprie di altri amori). L’amore di cui parla il Cantico dei cantici, che Gesù ha ammirato, sanato e benedetto, e che ha messo in difficoltà tanti autori sacri.

Se chi rinnova, si limita ai metodi, fatalmente i suoi contenuti non saranno altro che sfumatura di quelli dei «tradiziona­listi». Chi non condivide questi ultimi è come se venisse accompagna­to alla porta con un sorriso e uno sconto, mentre chi li condivide per reazione ne inventa versioni ancora più aspre e stizzose.

Come aveva compreso Paolo VI, se si vogliono cristiani più liberi e più misericord­iosi, si deve offrire loro più dottrina e non meno, più disciplina e non meno. Un rinnovamen­to a metà, solo metodologi­co, rischia di produrre una Chiesa più piccola e più fondamenta­lista.

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