La «rivoluzione copernicana» dei beni culturali secondo Giuliano Volpe: addio conservatorismo, sì all’intervento dei privati Un’alleanza tra gli innovatori per il patrimonio artistico
Servirebbe, per certi aspetti, una vera e propria «rivoluzione copernicana»: «guardare, cioè, al patrimonio culturale con gli occhi dei cittadini, dei visitatori, degli utenti e non solo con quelli dei funzionari, dei soprintendenti, dei professori, degli specialisti». L’uovo di Colombo, sembrerebbe. E invece la riflessione dell’archeologo Giuliano Volpe, presidente del Consiglio superiore dei beni culturali — contenuta nel suo nuovo saggio Patrimonio al futuro.Un manifesto per i beni culturali e il paesaggio — è esattamente il punto su cui, da anni, si confrontano due scuole di pensiero. La prima vede nello Stato l’unico possibile strumento non solo di tutela, ma anche di gestione del Patrimonio, con la convinzione che il nostro retaggio sia sostanzialmente materia di studio e di preservazione. L’altra individua nei nostri beni un’occasione di rilancio complessivo dell’identità italiana, quindi anche del nostro futuro economico.
Alla seconda schiera appartiene sicuramente l’attuale ministro per i Beni e le attività culturali, Dario Franceschini, che nell’introduzione al saggio scrive: «Valorizzare il nostro straordinario patrimonio culturale e artistico non significa minacciarlo o mercificarlo, quanto piuttosto creare le condizioni per poterlo custodire e proteggere nel migliore dei modi».
Franceschini ripete ciò che ha già sostenuto molte volte parlando della sua riforma: le risorse ottenute dalla valorizzazione servono per tutelare, studiare, restaurare i beni, far sì che vengano «fruiti» nelle migliori condizioni anche scientifiche possibili. Argomento che trova ostilità che il ministro definisce «figlie di una visione ideologica».
In un libero Paese il confronto è libero. Le critiche e le polemiche sono nel conto. Naturalmente è obbligatoria la buona fede intellettuale e il rispetto per le opinioni altrui. Ma non sempre ci sono. Per questo Volpe ricorda che gli specialisti, «i sacerdoti del patrimonio culturale», «hanno favorito negli anni, più o meno consapevolmente, una netta separazione, un vero e proprio divorzio, tra cittadini e patrimonio». Volpe dunque sostiene che «l’Italia non può più continuare a cullarsi sugli allori del passato, confondendo conservazione con conservatorismo. Deve saper innovare una gloriosa tradizione e affrontare le sfide del nuovo millennio».
Per questo propone una «alleanza tra gli innovatori» e indica alcuni obiettivi per il futuro. Superare, nella tutela, una «frammentazione prodotta da una visione antiquaria e accademica che separa pezzi di un patrimonio unitario», quindi abbandonare l’ossessione per gli specialismi puntando su una visione globale, rivedere la filiera della formazione istituendo una Scuola Nazionale del Patrimonio sul modello dell’Institut du Patrimoine francese. In quanto all’intervento dei privati, demonizzato dalla prima schiera di cui si parlava prima, per Volpe «la contrapposizione pubblico-privato rappresenta un falso problema. Semmai il conflitto è tra interesse privato e interesse pubblico, che deve essere garantito». E cita il caso più famoso di tutti: «Il tanto criticato restauro del Colosseo sponsorizzato da Tod’s non ha comportato nessuna presenza invasiva sulle impalcature del monumento simbolo di Roma e dell’Italia. Se poi uno sponsor trae vantaggio in termini d’immagine dal sostegno fornito per un restauro, una ricerca, che male c’è?».
Domanda alla quale i tanti famosi polemisti che immaginarono (sbagliando) immense fotografie di scarpe piazzate sul Colosseo non hanno mai fornito una risposta.