La banda ultralarga e lo «spread» guardando all’Europa
Entro il 2020 metà della popolazione dovrà poter navigare a 30 mega al secondo. Cosa serve per colmare il distacco con l’Europa
Con la fine del precedente governo Berlusconi nel 2011 e durante la successiva era transitoria di Monti, in Italia era diventato comune un termine tecnico che, fino ad allora, era rimasto confinato nelle colazioni di lavoro tra analisti del Fondo monetario internazionale e banchieri & co: lo «spread». Si tratta, com’è ormai noto, della differenza tra il rendimento che devono pagare i titoli di Stato a dieci anni, nel nostro caso i Btp, e i titoli tedeschi con eguale durata, i Bund. È evidente che lo spread è una convenzione finanziaria, un indice di mercato che misura la solvibilità di un Paese nel lungo periodo, prendendo come termine di paragone l’economia che ha sempre fatto da locomotiva al Continente, la Germania. In piena crisi lo spread finanziario superò anche quota 500, mentre in questi giorni, per avere un termine di paragone, siamo attorno ai cento punti ( cento basis points corrispondono a un tasso di interesse dell’1 per cento).
La distanza con l’Europa
Eppure se possiamo dormire sonni (più) tranquilli da questo punto di vista esiste un altro spread che non ha un correlativo oggettivo rispetto a quello finanziario, ma che pure sta diventando la vera zavorra dell’Italia: è lo «spread» digitale. Questo gap tra noi e gli altri Paesi europei non è quantificabile in un macronumero il cui impatto emotivo era stato dimostrato proprio dalla caduta del governo Berlusconi. Nessuno può governare a lungo senza tenere sotto attenta osservazione lo spread Btp-Bund. Per calcolare lo spread digitale dobbiamo seguire uno storytelling diverso che passi attraverso le tante classifiche, noiose ma importanti, che ci vedono eterni ultimi. Spesso in questi anni si è dibattuto della salute della banda larga (passò alla storia il documento di Francesco Caio in cui si diagnosticava l’«osteoporosi» al paziente infrastruttura di telecomunicazioni).
Non è un caso: la rete telefonica è una di quelle aree fisiche quantificabili. Ne possiamo rilevare lo stato di salute con la diffusione sul territorio, con la misurazione della velocità di connessione sia in download che in upload da parte dell’utente (cioè sia quando si scaricano dei file come un video in streaming, sia quando si caricano, per esempio, dei video su YouTube). Ed è anche per questo che l’Agenda europea che definisce tutti gli obiettivi che i singoli Paesi devono raggiungere entro il 2020 (da cui la definizione «Agenda venti venti») si è concentrata in particolare sul tema della banda larga e ultralarga. Partiamo con il dire che spesso si è fatta confusione su questi termini, anche da parte degli stessi operatori di mercato: per l’Europa si può definire una rete con la qualifica ultrabroadband (ultralarga) quando la velocità di navigazione supera i 30 megabit al secondo. Gli obiettivi che come Paese dobbiamo raggiungere, ormai in quattro anni, sono ambiziosi: 30 megabit almeno per il 50% della popolazione e 100 megabit per l’altro 50%.
Oggi, dati Agcom, gli accessi effettivi broadband sono 14,6 milioni in tutta la penisola (+270 mila nel corso del 2015) ma solo 3,6 milioni sono superiori ai 10 megabit. In soldoni: circa metà delle case ha un accesso alla Rete, ma di queste solo una su quattro naviga sopra i 10 mega ( e solo un milione viaggia a più di 30 mega). Un’Italia a macchia di leopardo la cui velocità media supera di poco i 4 megabit. A meno che, come abbiamo sempre fatto con gli appuntamenti internazionali, Olimpiadi, Expo, etc, etc, non assisteremo negli ultimi mesi al «miracolo della banda ultralarga», gli obiettivi venti venti sono raggiungibili solo trasformandoli in obiettivi venti venticinque, cioè al 2025.
Rete fissa e rete mobile
C’è un motivo se il media principale per eccellenza rimane la televisione e se nel 2015 dobbiamo ancora discutere delle rilevazioni Auditel da cui emerge un risultato incredibile (messo, in effetti, in discussione): gli italiani passano 94.900 minuti all’anno pro capite davanti al piccolo schermo. Peraltro in Italia viviamo la bizzarra contraddizione tra rete fissa, al palo, e rete mobile. Quest’ultima non solo può vantare i migliori standard del 4G ma anche una penetrazione di smartphone e device mobili che non ha eguali. Ma anche questo, alla fine, ha alimentato la fallace speranza che le due reti possano essere succedanee: purtroppo sia per quanto riguarda le aziende sia per le famiglie che sempre di più collegano apparecchi televisivi e altro alla Rete, il mobile non è un’opzione.
La connessione fissa è l’unica che può sostenere una richiesta di traffico crescente con più utenti collegati simultaneamente. Senza considerare le connessioni strategiche per le aziende finanziarie dove la latenza deve essere ridotta praticamente a zero (pensate agli scambi in Borsa), o anche quelle a cui sono collegati gli apparecchi medici degli ospedali. Ormai tutto è appeso a Internet, anche i telefoni fissi e il traffico voce. Sono peraltro accettati i modelli economici che mostrano una correlazione tra crescita del Pil e diffusione della banda ultralarga fissa, anche se si potrebbe discutere a lungo sulla quantificazione di questo contributo. Bruxelles, chiaramente, tiene conto del fatto che le nuove tecnologie in fibra ottica non possono essere portate in ogni casa (non sarà possibile nelle aree di montagna ma nemmeno dove il mercato non è recettivo abbastanza per giustificare gli investimenti da parte dei privati). Ed è proprio per questo che il governo Renzi ha sbloccato, tramite delibera del Cipe, 2,2 miliardi di euro da usare nelle cosiddette aree Ce D (funziona come nel calcio: la A e la B sono quelle che contano, le altre serie sono quelle povere e senza budget).
C’era una volta il piano Leonardo
E pensare che, anche se oggi suona come una barzelletta, avremmo potuto essere all’avanguardia nel campo della Rete. Ormai non lo ricorda più nessuno ma tra il ‘95 e il ’97, anno della privatizzazione di Telecom Italia, l’ex monopolista attuò un piano chiamato in codice «Leonardo». La ex Sip aveva già progettato di portare la fibra ottica, in parallelo al rame, non sono fino alla base dell’edificio (quello che si definisce Fttb, Fiber to the building) ma addirittura fino agli appartamenti. In alcune città sono ancora visibili i cavi di colore giallo, blu e rosso che fuoriescono dal sottosuolo vicino agli edifici, prova tangibile che il piano era a buon punto. Un ultimo miglio all’avanguardia, fino a quando... Nel ’98 passò un pronunciamento della Corte europea che obbligava gli incumbent (sono chiamate così le società ex statali che operavano in monopolio come Telecom Italia, France Telecom, British Telecom) a dare accesso ai concorrenti proprio nell’ultimo miglio. Fu lì che si decise di difendere a oltranza il rame.
È evidente che non tutto lo spread tecnologico può essere fatto risalire al ritardo nell’infrastruttura. Un grosso ruolo lo hanno anche il fattore demografico e quello culturale. Con una curva della popolazione che invecchia il passaggio non solo all’economia ma anche ai semplici servizi digitalizzati della Pubblica amministrazione non è affatto semplice. L’unica strategia certa per il salto dal vecchio al nuovo è quella usata anche per la transizione dalla tv analogica a quella digitale terrestre o per il cambio da lira a euro: lo switch off, cioè lo spegnimento in una data certa della vecchia offerta. Ma anche questa strada ha almeno due problemi: il primo è che ci sono sempre degli esclusi che, in questo caso, sono gli anziani che avrebbero maggiore difficoltà. Il secondo si ricollega al fattore culturale. Come ha detto recentemente il direttore dell’Agenzia per l’Italia digitale, Antonio Samaritani, possiamo anche introdurre la fatturazione elettronica. Peccato che poi l’Asl di turno stampi tutto e tratti la documentazione come se fosse cartacea. Ma l’approccio culturale si manifesta anche in altri modi: per esempio nelle 22 tra commissioni, cabine di regia e tavoli permanenti che in Italia ruotano attorno al tema della digitalizzazione. Poltrone: l’unica cosa che non verrà mai resa virtuale dai governi.
Le dorsali di telecomunicazione
Eppure ci sono dei motivi sempre più concreti per occuparsi del tema: tutto ormai ruota intorno a reti e sviluppo, anche la politica industriale. Un esempio viene proprio dalle grandi dorsali di telecomunicazioni che in questo momento ci potrebbero vedere in primo piano. Storicamente i grandi «mix» (dei nodi vitali dove i cavi dei vari operatori si uniscono creando dei veri e propri incroci di internet) sono a Londra, Amsterdam (dove arrivano i cavi sottomarini dagli Usa) e Francoforte che dal crollo del muro di Berlino fa da collegamento con l’Est Europa. Ma con il crescere dell’importanza dell’Africa e del Medio Oriente il Mediterraneo sta diventando luogo segreto di mire espansionistiche. Marsiglia (solo
en passant faccio notare che si tratta proprio della Francia che sta muovendo su Telecom) potrebbe essere il centro di questo nuovo importante e strategico flusso. Oppure la Sicilia: non è un caso che Interoute con altri soggetti stia per lanciare un mix proprio nell’isola. Obiettivo: attrarre i nuovi giganti come Google, Facebook e Amazon. E avere un ruolo nella trasformazione digitale dell’economia.
Su 14,6 milioni di accessi quelli superiori ai 10 mega sono 3,6: in pratica, solo una casa su quattro naviga ad alta velocità