VOLKSWAGEN E I DITTATORI, UN’AMICIZIA DA CHIARIRE
Un altro armadio da ripulire, alla Volkswagen. Sporco. Ieri, la casa automobilistica, già nel pieno dello scandalo delle emissioni truccate, ha confermato all’agenzia di notizie tedesca Dpa che sta «valutando l’ingiustizia occorsa» in Brasile durante la dittatura militare 19641985. E che è «all’inizio di una discussione su come raggiungere un accordo» di riparazione per un’accusa che le ha rivolto la Commissione nazionale per la ricerca della verità su quegli anni: di avere collaborato con i militari dell’epoca nell’identificare lavoratori di sinistra e di avere permesso arresti e torture nel suo stabilimento di São Bernardo do Campo. Dodici ex dipendenti brasiliani del gruppo tedesco hanno intentato una causa civile. L’anno scorso, la Commissione brasiliana ha accertato che molte imprese si resero responsabili di collaborazione con la repressione dei militari. E che fornirono loro nomi e indirizzi di militanti sindacali. Secondo alcune testimonianze, Volkswagen fu tra le imprese più attive nell’abbracciare quella pratica. La Commissione ha citato il caso di un operaio comunista, Lucio Bellentani, che un giorno fu ammanettato in fabbrica, portato nella sala di sicurezza della Volkswagen e lì torturato. Altri furono licenziati e messi in una lista nera a causa della quale non trovarono più lavoro. Gli eredi dell’Auto del Popolo voluta da Hitler avrebbero dovuto stare lontani dai dittatori come dalla peste. Pare che non l’abbiano fatto. La casa automobilistica tedesca è stata chiamata a chiarire i suoi comportamenti già in febbraio ma solo in settembre avrebbe iniziato a discutere di riparazioni (che potrebbero servire per la costruzione di un memoriale). Storia brutta. Che, se confermata, aggiungerebbe infamia a un gruppo tanto bravo nel fare auto quanto scorretto nel prendere scorciatoie, anche nefaste, per arrivare dove la tecnologia non basta.