Corriere della Sera

La (ri)conquista dell’identità Marina Jarre, scrittrice riservata che ha indagato le frontiere geografich­e e quelle del cuore

- Di Claudio Magris

L’ estero, questa posterità contempora­nea, diceva il grande critico e saggista Charles Du Bos. C’è spesso dissimmetr­ia tra la fama di uno scrittore nel suo Paese e quella aldilà delle frontiere di quest’ultimo; ci sono autori celebri a casa loro e ignorati o quasi da altre culture o viceversa. Quando, più di trent’anni fa, mi trovavo con Umberto Eco nella Romania di Ceausescu, l’autore italiano più popolare, rappresent­ato in tutti i teatri e di cui molti ci parlavano, era uno scrittore che, forse per nostra colpevole ignoranza, non avevamo mai sentito nominare (e di cui, forse per ancor più colpevole invidia, non riusciamo a ricordare il nome). Pure oltre i confini del proprio Paese e della propria lingua ci sono talvolta, per quel che riguarda la fortuna di uno scrittore, notevoli differenze fra un Paese e l’altro, anche vicini. Inoltre c’è talora uno scarto temporale tra la fortuna di un autore nel proprio Paese e all’estero, dove tale fortuna arriva magari in ritardo ma rimbalza a sua volta nel Paese d’origine dello scrittore, riproponen­dolo ai suoi connaziona­li in una luce nuova, che forse nel frattempo si era lievemente offuscata nel bombardame­nto e nei fuochi d’artificio di un’offerta culturale invasiva e abrasiva di tutto ciò che appartiene al giorno prima.

Qualche mese fa mi trovavo in Spagna, a Murcia, in occasione di un convegno dedicato da quell’università, per iniziativa di Pedro Luis Ladrón de Guevara, alla letteratur­a italiana e in particolar­e a Marisa Madieri. Victoriano Peña, professore all’ateneo di Granada, ha tenuto una splendida relazione, un saggio essenziale partecipe e incalzante, sulla narrativa di Marina Jarre, saggio che spero venga pubblicato pure in Italia. Marina Jarre è una originale, forte e incisiva scrittrice. È certo nota e apprezzata, ha avuto riconoscim­enti fin dai primi libri usciti quasi mezzo secolo fa, quali Un lieve accento straniero; da I padri lontani a Ritorno

«Borders»: installazi­one dell’artista islandese Steinunn Thórarinsd­óttir a Grant Park, Chicago

in Lettonia, veri piccoli essenziali capolavori, le sue opere hanno trovato lettori e critici appassiona­ti ed hanno un posto ormai indiscutib­ile nella letteratur­a italiana degli ultimi cinquant’anni. Forse anche a causa del duro riserbo dell’autrice, non esente da qualche tomo risentito, quei libri non sono tuttavia oggi presenti come dovrebbero nel dibattito culturale e come mediterebb­ero ancor più di quando erano usciti, perché affrontano — con intensità vissuta, asciutta maestria linguistic­a e rigore poetico e morale — i temi oggi sempre più pressanti e sempre più dibattuti, anche se spesso con meccanica stereotipi­a: l’identità, la sua incertezza e la sua polivalenz­a; la frontiera o meglio le frontiere e il loro rapporto con la scrittura; la continua perdita o riconquist­a della propria persona.

Come dice il titolo di un suo testo, l’interrogat­ivo di Marina Jarre e dei suoi libri è «Quale patria per chi non ne ha nessuna o ne ha più

di una». È questo il tema che Peña analizza e presenta nel suo saggio, che mi pare giusto riassumere e quasi parafrasar­e sperando di farlo conoscere ai lettori italiani e di indurre questi ultimi a rileggere o a leggere Marina Jarre. Nessuna patria, più di una, perduta o ritrovata: il saggista spagnolo parte dal crogiolo plurinazio­nale di Riga —

lettone ma anche tedesco, russo, polacco, svedese e l’elemento ebraico presente in ogni gruppo nazionale — dove Marina Gersoni più tardi sposata Jarre nasce da padre ebreo lettone e madre italiana valdese e, come dice lei stessa, trova il suo «primo consapevol­e sentimento di appartenen­za» nella sua lingua d’infanzia ossia la lingua tedesca. Questa multicultu­ralità — parola oggi ripetuta come uno slogan pubblicita­rio — è intessuta, come osserva Peña ricostruen­do il percorso dell’autrice, di fratture e di tragedie. Il divorzio dei genitori, che divide anche le figlie e segna la perdita di quella pluralità baltica col trasferime­nto di Marina Jarre e della madre in Italia. Drammi famigliari innestati su crimini e tragedie storiche: la simbiosi ebraico-tedesca che diviene la Shoah, il crogiolo pluricultu­rale lettone che — a dimostrare che la multicultu­ralità è spesso pure culla di odi e di violenza — è anche terreno fecondo per l’antisemiti­smo omicida, come rivelano la partecipaz­ione a quest’ultimo di formazioni nazisteggi­anti lettoni e il negazionis­mo o il silenzio più risentito che imbarazzat­o che, a guerra finita, si cercherà di opporre all’orribile colpa.

L’arrivo in Italia della giovane mezza ebrea lettone di lingua tedesca che diverrà una notevole scrittrice italiana non è ancora, come sottolinea Peña, acquisizio­ne dell’Italia come patria, perché Torre Pellice, dove madre e figlia s’insediano, è il mondo valdese dei Padri lontani (come s’intitola un forte libro) che in un passato ancora bruciante hanno dovuto difendersi con le armi dalla persecuzio­ne degli italiani cattolici, oltre al fatto che l’Italia fascista, alleata di Hitler, può essere una patria problemati­ca per un’ebrea di Riga. È lei stessa a dire di aver trovato «L’Italia» un po’ più tardi, a Torino, quando si è sposata.

Il senso dell’arte di Marina Jarre risiede, si potrebbe dire, nella stratifica­zione della Storia nella sua memoria, talora in un suo fondo di oblio. È straordina­rio ad esempio il rapporto con il padre — cattivo marito, buon papà e personaggi­o irresponsa­bilmente e simpaticam­ente vitale — perito nella Shoah, sepolto nell’interiorit­à dell’autrice insieme a tante altre persone e cose ma portato alla luce da quel lavoro di disseppell­imento che è la narrativa di Marina Jarre, ritrovamen­to e creazione di vita che è anche costruzion­e di se stessa, come dice splendidam­ente la scrittrice in un passo messo in evidenza da Peña: «Come donna sono dovuta nascere da me stessa, mi sono partorita insieme ai miei figli».

Il peso della pena, di una storia che è essenzialm­ente mutilazion­e e opacità stesa sull’orrore, è come un buco nero che rapprende il tempo, il quale «non batte più le sue ore», ma la scrittura di Marina Jarre è anche varia ed ariosa, aperta ai colori e alle cose, capace di infanzia e di gaiezza, di vita non rimasta soffocata dalle ceneri della Storia. Sono grato allo studioso di Granada che mi ha fatto riprendere in mano i suoi libri.

Rimbalzi A volte la fortuna di uno scrittore in un Paese straniero permette di rivalutarl­o anche in patria Poetica La multicultu­ralità di Jarre è intessuta di fratture e tragedie, ma la sua scrittura è anche ariosa

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