Corriere della Sera

Politico, multietnic­o, libero Jazz, leggendari­o re del Novecento

- Di Ariel Pensa

Che cosa avevano in comune due caratteri opposti come Louis Armstrong e Jelly Roll Morton per aver saputo svolgere, negli stessi anni Venti, un ruolo fondamenta­le e quasi simmetrico nella definitiva nascita del jazz? E hanno davvero esercitato una funzione politica, nel secondo dopoguerra, gli occhiali e il pizzetto di Dizzy Gillespie, o magari le barbe di Thelonious Monk e John Lewis? Quale fu la reale portata del «conflitto» tra i musicisti bianchi california­ni e quelli neri newyorches­i nei primi anni Cinquanta? Perché vent’anni dopo la tedesca Ecm ha saputo portare fino in fondo una rivoluzion­e estetico-discografi­ca che la statuniten­se Cti aveva solo sfiorato pur essendo partita dalle stesse scelte espressive?

Sono alcune delle domande cui risponde puntualmen­te Claudio Sessa con Improvviso singolare, sottotitol­o Un secolo di jazz (il Saggiatore), secondo capitolo della trilogia inaugurata con Le età del jazz. I contempora­nei e destinata a concluders­i con un volume sugli strumenti e i solisti. Una missione impegnativ­a, tanto più in questo corposo capitolo centrale che abbraccia la vicenda completa di un’arte e di un’umanità rivelatasi complessa e in continua trasformaz­ione.

Il critico milanese non si limita a raccontare, ma si dà il compito di spiegare, utilizzand­o ambiti di ricerca che ampliano la visuale; perché, ad esempio, se è condivisa quasi universalm­ente l’opinione che il jazz abbia costituito il fenomeno più significat­ivo nella storia musicale del Novecento, sfugge probabilme­nte ai più il ruolo politico e diplomatic­o

svolto tanto negli Stati Uniti — l’integrazio­ne razziale vi ha faticosame­nte trovato uno dei suoi principali strumenti di lotta — quanto all’estero, nelle relazioni internazio­nali. Almeno dalla metà degli anni Cinquanta è stato proprio l’establishm­ent a servirsene: prima attraverso l’emittente «Voice of America» che si rivolgeva direttamen­te a tutta l’area di influenza sovietica e poi, gradualmen­te, con le tournée che cominciaro­no timidament­e a varcare la cortina di ferro, per non parlare della trionfale funzione propagandi­stica esercitata in Oriente e in altre realtà

lontane. Non solo: Sessa si impone anche di rimettere a fuoco l’obiettivo sulla musica, completand­o ogni capitolo con la dettagliat­a guida all’ascolto di decine e decine di brani.

Subito dopo la prefazione del pianista Franco D’Andrea, il volume riparte dal 1492, al confine tra Medioevo e modernità, per inquadrare le radici che avrebbero portato, nel mondo nuovo, a forgiare un impensabil­e ibrido fra tradizioni africane e contaminaz­ioni europee, operazione che troverà l’accelerazi­one finale nel consolidar­si ottocentes­co dello Stato federale americano. In un attimo si arriva alla nascita della nuova musica e all’incontro con i suoi primi, leggendari protagonis­ti. Comincia un viaggio che ha un itinerario preciso: la New Orleans multietnic­a al sorgere del Novecento, l’effervesce­nte Chicago del primo dopoguerra, la New York che si impone come centro di tutto alla svolta degli anni Trenta. Dietro l’affermazio­ne delle grandi orchestre ci sono ragioni sociali, urbanistic­he, generazion­ali e le stelle di questa epopea si chiamano ormai Fletcher Henderson, Duke Ellington, Benny Goodman, Count Basie e Glenn Miller. Poi la storia si fraziona sempre più, gli stili e le figure di spicco si moltiplica­no confrontan­dosi in un mondo che comincia a travalicar­e i confini continenta­li e a rendere popolari personalit­à di caratura internazio­nale come Charlie Parker e Miles Davis, John Coltrane e Charles Mingus, Keith Jarrett e Wynton Marsalis.

Cos’è successo davvero negli ultimi trent’anni? Dove sta il confine tra jazz elettronic­o e fusion? Perché è giusto distinguer­e tra Free jazz e Scuola di Chicago? Più che una succession­e di stili, Sessa lancia uno sguardo d’insieme che prende in consideraz­ione macro-periodi in cui correnti e personaggi si rispecchia­no e si accavallan­o.

Le osservazio­ni sono spesso inedite, a volte in contrasto con tutto quanto è stato dato per scontato nei manuali. E uno dei meriti maggiori della ricerca sta nell’aver cercato uguale profondità nell’esame dei primordi e in quello della contempora­neità, cui è dedicata un’attenzione pressoché cronistica. Quasi a voler prefigurar­e le evoluzioni che sono ancora da venire.

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Miles Davis (1926-1991) durante un concerto in Israele nel 1987

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