Ora la Rete veloce deve diventare una priorità politica
Oggi negli Stati Uniti oltre il 25% della capacità della Rete viene usata dagli utenti per guardare video, film e serie di Netflix, la piattaforma di streaming appena arrivata anche in Italia. Ipotizziamo che sempre oggi, per un miracolo del marketing, tutti gli italiani che hanno un accesso a una rete fino a 10 megabit al secondo di velocità accendessero il loro abbonamento alla società fondata da un ex Marines insegnante di matematica, Reed Hastings, iniziando a scaricare contenuti: la Rete verrebbe giù. Sarebbe un blackout tecnologico senza precedenti. Quello che ci mantiene in vita è il precario equilibrio dell’arretratezza. Ma è chiaro che non può durare. Le aziende hanno bisogno di banda, gli artigiani hanno bisogno di banda, così come i professionisti, gli utenti e gli startupper. In gioco non c’è solo una banale classifica che colpisce comunque il nostro orgoglio, ma lo sviluppo e dunque il benessere economico e sociale. Basterebbe osservare ciò che sta accadendo intorno a noi per comprendere che i motori tradizionali della crescita come il consumo, la produzione, l’innovazione e anche la distribuzione della ricchezza passano oggi su internet, come nell’ultima parte dell’Ottocento e per tutto il Novecento sono passati dall’elettricità. Per questo in Italia è necessario più che mai un colpo di reni prima di tutto «politico». Siamo in mezzo a un guado: non possiamo tornare indietro e non possiamo rimanere fermi a metà. Da troppo tempo stiamo discutendo di banda stretta, digitalizzazione della macchina pubblica, abbattimento della burocrazia (internet è un naturale nemico della burocrazia perché impone maggiore trasparenza e non è un media unidirezionale come la tv), meritocrazia. La Rete non è la panacea di tutti i mali e non è nemmeno una condizione sufficiente per il cambiamento. Ma può essere un «abilitatore». Il governo Renzi deve farla diventare una priorità effettiva. Le continue crisi e le riforme che pure vanno portate avanti non siano più una scusa per non dare un segnale chiaro a tutta la macchina pubblica. E anche alle aziende che, pur nella libertà della propria gestione, non possono andare contro a quello che è l’interesse generale.