QUANDO IL PCI SCOMUNICÒ L’ESTREMISMO
Le parole di Giorgio Amendola suonano antiche e rivelatrici. Oggi come al tempo in cui furono pronunciate. Era il 1977, anno di piombo e di rivolte in strada, di agguati e manifestazioni violente. Il dirigente del Pci, già settantenne, parlava al Comitato centrale del partito; pochi giorni prima a Bologna, durante uno scontro di piazza, un proiettile esploso dai carabinieri aveva ucciso il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso. Amendola lo definì «un nostro nemico», al quale rendeva onore, e ricordò che «anche i giovani repubblichini che venivano a combattere contro di noi erano ragazzi generosi e in buona fede. Li rispettavamo per il loro coraggio, ma dovevamo fucilarli perché erano nemici».
Lorusso non era un terrorista, ma un estremista. E il duro accostamento di Amendola solleva il velo sull’atteggiamento che buona parte della dirigenza comunista (soprattutto della sua generazione) ebbe nei confronti dell’estremismo, prima ancora che della lotta armata: un contrasto spinto fino allo schieramento sui lati opposti della barricata. Non solo in senso figurato. In quella riunione molti altri «anziani» ebbero espressioni meno drammatiche, ma ugualmente decise, e per il segretario dei giovani comunisti Massimo D’Alema non fu semplice sostenere che il partito doveva «misurarsi con un fenomeno nuovo, che andava compreso e denunciato per rendere consapevoli i militanti».
Il resoconto di quel dibattito è uno dei passaggi più significativi dell’accurata ricostruzione contenuta in Difendere la democrazia. Il Pci contro la lotta armata (Carocci editore, pagine 330, 37) scritto da Alessandro Naccarato, deputato del Pd nato nel 1969, l’anno della strage di piazza Fontana. Un lavoro che ripercorre passo dopo passo il modo in cui i comunisti fronteggiarono il terrorismo italiano, dai primi vagiti fino al declino di metà anni Ottanta. Ne emerge un’idea dell’eversione figlia di un massimalismo che affonda le radici nel Sessantotto e nelle sue declinazioni non veicolate dalla politica del Pci a sostegno delle rivendicazioni studentesche e operaie. In sostanza, ciò che rimase fuori dal partito divenne il brodo di coltura della lotta armata.
Vista inizialmente come provocazione degli apparati impegnati a tenere i comunisti lontani dalla «stanza dei bottoni», e poi come assalto diretto al Pci come colonna della democrazia, al pari degli altri partiti dell’arco costituzionale. Per questo — proprio a partire dal 1977, poi nel sequestro Moro fino al rapimento di Dozier e alla liberazione dell’ostaggio con un blitz della polizia (1982) — la dirigenza comunista, con Ugo Pecchioli in prima fila, scelse di schierarsi apertamente al fianco della magistratura, delle forze dell’ordine e della «repressione», senza «avere paura delle parole».
Non a caso una parte considerevole dell’analisi di Naccarato segue il corso degli eventi a Padova, la città dove le Br commisero il primo duplice omicidio e dove le violenze degli autonomi ebbero maggior peso ed eco; e dove l’inchiesta e il processo «7 aprile» divennero il paradigma del sostegno del Pci all’azione giudiziaria che doveva dimostrare, anche sul piano delle responsabilità penali, l’intreccio tra estremismo e terrorismo. Fino al dibattito in direzione sull’arresto di Toni Negri (eletto deputato nel 1983 con i radicali), nel quale anche i leader che venivano dalla lotta antifascista e di liberazione si trovarono a sostenere posizioni diverse; Pajetta (favorevole) contro Macaluso (contrario); Napolitano contro Zangheri, Chiaromonte contro Reichlin. Con astensione finale al momento del voto in aula, quando l’isolamento politico dei sovversivi sembrava ormai cosa fatta, insieme alla sconfitta militare.