«I finti presenti vanno licenziati»
Il piano del ministro Madia per la riforma del pubblico impiego. Le misure: tempi più brevi per accertare i comportamenti fraudolenti, più chiarezza sulle responsabilità dei capi ufficio
Dopo i vigili di Roma assenti a Capodanno e quello di Sanremo che timbrava in mutande, la ministra Madia è netta: «Chi dice che va a lavorare e non lo fa va licenziato».
«Un dipendente pubblico che dice di andare a lavorare e poi non ci va, deve essere licenziato». Sembra una frase scontata, persino banale, quella pronunciata ieri dal ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia. Ma non lo è. Perché «non è vero che tutti i dipendenti della Pubblica amministrazione sono fannulloni», come ricorda la stessa Madia. Ma dai vigili urbani di Roma assenti in massa la notte di Capodanno al loro collega di Sanremo, ripreso mentre timbrava in ciabatte e mutande per ottimizzare i tempi, gli esempi poco edificanti fioccano un giorno sì e l’altro pure. E invece
i licenziamenti sono una rarità assoluta. Gli ultimi dati disponibili dicono che nel 2013 i procedimenti disciplinari avviati negli uffici pubblici sono stati poco meno di 7 mila. E i licenziamenti 220. Su un totale di 3 milioni e passa di dipendenti pubblici siamo allo 0,007%. O abbiamo la burocrazia migliore del mondo oppure i conti non tornano. Ed è per questo che il governo Renzi si prepara rendere se non più severe almeno più semplici e veloci le regole che possono portare al licenziamento.
Già oggi la legge prevede la risoluzione del contratto per motivi disciplinari. Le cause
possibili sono sette, dopo l’ultima riforma del 2009. E la prima è proprio la «falsa attestazione delle presenza in servizio». «C’è già tutto, basta applicare la legge e avere la giusta volontà politica», dice Brunetta, autore di quella riforma portata a casa al tempo della campagna sui tornelli e sul tabelle messe su interne con il tasso di assenze
ufficio per ufficio. La legge c’è. Ma secondo il governo Renzi qualcosa non va nella macchina che la dovrebbe applicare. Ed è su questo punto che il ministro Madia vuole correggere il tiro. Su tre punti. Il primo è la durata massima del procedimento disciplinare. Oggi, quando può portare al licenziamento, può arrivare al massimo a 160 giorni. Dovrebbero scendere a 120. Il secondo correttivo è sulle conseguenze per chi sfora i tempi. Già oggi è prevista una durata massima per ogni passaggio della procedura: 40 giorni per la contestazione, altri 20 per la convocazione. Il punto è che se queste
scadenze vengono sforate non succede nulla. E quindi raramente vengono rispettate. Sarebbe introdotta, invece, una sanzione per il responsabile del procedimento che non riesce a tenere la pratica nei tempi. L’ultimo correttivo è più tecnico ma forse più importante. Oggi i dirigenti sono prudenti quando devono far partire il procedimento, addirittura prudentissimi se possono arrivare al licenziamento. E questo perché se il dipendente allontanato impugna il provvedimento in tribunale e vince la causa, è proprio lui, il dirigente, ad essere responsabile di danno erariale. Deve pagare di tasca sua,
insomma. E la tentazione di lasciar perdere rischia di avere la meglio su tutto il resto. Per questo è possibile che il dirigente venga sollevato per legge dalla responsabilità personale. Lasciando naturalmente che, in caso di licenziamento annullato in tribunale, a pagare i danni sia solo lo Stato.
I correttivi dovrebbero trovare posto nel decreto che il governo emanerà nelle prossime settimane per dare attuazione alla riforma della Pubblica amministrazione, approvata quest’estate.
I contenziosi Nel 2013 circa 7 mila provvedimenti disciplinari, con 220 licenziamenti