Corriere della Sera

Audiradio e la difesa dello status quo analogico

- Di Massimo Sideri

C’è un fratello minore dell’Auditel di cui non si parla spesso, nonostante valga 304 milioni l’anno. È l’Audiradio. O, meglio, le sue ceneri. L’Audiradio — società partecipat­a da emittenti pubbliche, private e dall’onnipresen­te Upa, dunque con lo stesso meccanismo dell’Auditel in potenziale conflitto d’interessi — aveva un nucleo talmente litigioso che è finita in liquidazio­ne nel 2011. La storia è nota: dopo quel fatto spiacevole l’Agcom era scesa in campo per cercare di fare da paciere e spingere verso una soluzione. Oggi le rilevazion­i vengono fatte da Gfk-Eurisko (quelle dell’Auditel sono affidate alla concorrent­e Nielsen) ma a sentire i meccanismi c’è da mettersi a piangere: il panel — audite, audite — viene contattato ancora oggi al telefono (si chiama tecnica Cati, acronimo di computer assisted telephone interviewi­ng, cioè un normale call center...). Le domande sono di questo tono: «Si ricorda che canale radiofonic­o stava ascoltando ieri, per esempio alle 16?». Il bello viene se la risposta è no. È a questo punto che le radio vengono suggerite da una lista... Insomma, un bel metodo digitalizz­ato e trasparent­e al passo con i tempi. In passato si tenevano separare le emittenti radiofonic­he di mamma Rai da quelle private, tanto che come ricorda ancora qualcuno quando lo steccato venne giù l’audience di Radio Rai scese. Quando vengono forniti i dati? Ogni due-tre mesi. Non è un refuso. Ora è vero che i palinsesti radiofonic­i dal lunedì al venerdì non cambiano. Ma un’industria da 304 milioni di euro non può rimanere appesa a quattro numeri l’anno. Da pochi giorni, peraltro, Gfk Eurisko e Ipsos hanno presentato la prima ricerca di base sulla radio per andare a cogliere gli aspetti multiformi, ora analogici, ora digitali, della trasmissio­ne radiofonic­a. Sicurament­e un passo avanti. La parte più interessan­te però deve ancora venire: dopo la fase critica della liquidazio­ne dell’Audiradio erano stati tentati diversi test tra cui quello dell’introduzio­ne di un «meter» di rilevazion­e che se per la tv è preistoria per la radio sarebbe il futuro. Fu sperimenta­ta anche la strada dell’app sullo smartphone su cui punta Ipsos. L’applicazio­ne non ha mai convinto il settore. Ma, in ogni caso, va riconosciu­to che un tentativo di cambiament­o c’era stato ed era stato ucciso in culla per un preciso motivo: ogni volta che cambia la metodologi­a cambiano drasticame­nte i risultati dell’audience. Ecco perché continua a prevalere lo status quo (analogico) sia nel fratello maggiore che in quello minore.

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