Corriere della Sera

La mostra

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«Bisogna avere l’audacia di scrivere un libro di erudizione straordina­ria come questo, e l’audacia anche di leggerlo», dice il presidente della giuria Bernard Pivot a proposito del romanzo che ha vinto il Goncourt 2015, Boussole di Mathias Enard, edito da Actes Sud. Al primo piano del ristorante Drouant, che dal 1914 ospita il premio letterario più importante di Francia, i cameraman e i fotografi si spintonano come sempre attorno alla tavola dove sono seduti Pivot e i giurati (tra loro Pierre Assouline, Régis Debray, Françoise Chandernag­or, Patrick Rambaud) e dove poco dopo le 13 arriverà l’emozionato vincitore, giunto ieri a Parigi da Algeri.

«Ho capito di avere vinto — dice Enard — quando nella casa editrice dove mi trovavo tutti hanno cominciato a saltare di gioia. Nel taxi che mi portava qui ho avuto il tempo di inviare un messaggio a mia figlia dicendole “puoi essere fiera di tuo padre, ce l’ho fatta”. Spero che grazie a questo premio il libro potrà trovare molti lettori». Da Pivot all’autore stesso, non pochi nutrono qualche dubbio sul successo di pubblico di Boussole, lodato dalla critica unanime, ma certo non un romanzo facile, a cominciare dall’incipit: un’unica frase che occupa tutta la prima pagina, senza punti. Prodezza comunque di gran lunga inferiore rispetto al precedente Zona (Rizzoli, 2011), che di pagine senza punti ne aveva 487.

Enard scrive così, un flusso di coscienza tra l’onirico e il nostalgico in ricordo di un’Oriente che non è terrorismo e Isis, ma ricchezza di lingue e culture, territorio di conoscenze e ricordi per il 43enne scrittore che è innanzitut­to un grande erudito. Enard ha insegnato l’arabo in catalano a Barcellona dopo avere vissuto a Beirut, Damasco, Teheran, Venezia, Roma.

Boussole è la storia di un musicologo misantropo, chiuso nel suo appartamen­to viennese, che riceve la notizia di essere gravemente malato. La notte gli fa ripercorre­re i soggiorni in Siria, nelle città di Palmira e Aleppo ancora sontuose, e l’amore per l’amata Sarah, avventurie­ra perduta nella giungla malese.

La vittoria di Enard fa notizia quasi quanto la sconfitta di 2084 dell’algerino Boualem Sansal, pubblicato da Gallimard, a lungo giudicato il grande favorito, ma poi neanche entrato nella selezione finale. «Alcuni giurati giudicavan­o la sua favola politico-religiosa troppo feroce e islamofoba», è l’indiscrezi­one che ha accompagna­to la sua esclusione. Se l’Oriente di Enard è quello amato e spesso dimenticat­o dell’influenza feconda sull’Europa e sulla cultura mondiale, l’Oriente di Sansal è una distopia orwelliana cent’anni dopo, dove l’islamismo totalitari­o ha trionfato e nel sanguinari­o impero di «Abistan» si prega nove volte al giorno.

L’Oriente era presente anche in altri due finalisti del Goncourt: Les Prépondéra­nts (Gallimard) del franco-tunisino Hédi Kaddour, ambientato nel Nordafrica del 1920, e Ce pays qui te ressemble (Stock) di Tobie Nathan, racconto dell’Egitto della sua infanzia, dove ebrei e musulmani vivevano in armonia, fino a quando i primi vennero espulsi da Nasser a seguito della crisi di Suez. Nella stanza accanto, sempre al ristorante Drouant, è stato assegnato il premio Renaudot: lo ha vinto Delphine de Vigan con il bestseller D’après une histoire vraie (JCLattès), storia di una scrittrice parigina come lei in preda al blocco creativo dopo un primo successo. Il vincitore (in alto) Mathias Enard e il grande escluso, Boualem Sansal

L’incontro

Marino Marini (Pistoia, 1901 – Viareggio, 1980) è stato scultore, pittore, incisore. Docente di scultura prima alla Scuola d’arte della Villa Reale di Monza e all’Accademia di Brera, premiato alla Biennale di Venezia nel 1952, le sue opere sono state esposte in tutto il mondo

Kengiro Azuma (Yamagata, 1926) è scultore e pittore. A 17 anni entra nella marina come pilota. Nel 1956 si trasferisc­e a Milano. Allievo di Marino Marini all’Accademia di Brera, in seguito ne diventa assistente (foto sopra: Marino e Kengiro negli Anni 70 nell’aula di scultura dell’Accademia) di Danilo De Marco. Palazzo Gopcevich, a Trieste, sino all’8 dicembre. Catalogo Forum, 24

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