Corriere della Sera

COME TERMINARE LA GUERRA IL CASO DI VITTORIO VENETO

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Nella sua risposta a un lettore su Caporetto e le sue conseguenz­e, lei afferma che è giusto parlare delle molte verità su Caporetto, ma non è giusto che questo offuschi quella di Vittorio Veneto. Se lei intende che le più belle vittorie dell’esercito italiano nella Prima guerra mondiale furono le battaglie sul Piave e sul Grappa che inchiodaro­no l’invasore e in definitiva lo portarono al collasso, sono d’accordo. Se invece intende l’evento bellico della «battaglia di Vittorio Veneto», qui mi pare che di gloria ve ne è ben poca. Sin dal 29 ottobre gli austriaci avevano chiesto l’apertura immediata per la cessazione delle ostilità. Subito, dall’inizio delle trattative a Villa Giusti, gli austriaci si dissero disponibil­i alla resa incondizio­nata. Il 3 novembre il generale austriaco Viktor Weber von Webenau annunciò che il suo esercito aveva deposto le armi, ma Badoglio, che capeggiava la delegazion­e italiana, fu irremovibi­le: la firma della cessazione delle ostilità sarebbe avvenuta solo il 4 novembre. Webenau scrive: «Le operazioni militari non possono essere arrestate da alcuna nostra offerta e, quindi, neppure da una resa incondizio­nata, l’esercito italiano vuole entrare a Trento e Trieste come vincitore di una battaglia finale». Così accadde. Gli italiani assalirono l’esercito austrounga­rico oramai in fuga, e quella fu la «battaglia di Vittorio Veneto», località, che non a caso, prima non esisteva. Esistevano Ceneda e Serravalle che furono unite con un nuovo nome, appunto Vittorio Veneto e, a distanza di quasi 100 anni anche se fanno parte di uno stesso comune, è come che non lo fossero, anche questo non è casuale. Quindi, a mio sommesso parere, la gloria italiana nella Prima guerra mondiale fu al Piave e al Grappa, la battaglia di Vittorio Veneto, dubito che fu «vera gloria». Infine le confesso che io sono fra quelli che ritiene che aveva ragione Giovanni Giolitti e torto Salvemini, Albertini, Mussolini , ma questa è un’altra storia.

Angelo Rambaldi

Bologna

Caro Rambaldi,

Al numero di coloro che erano contrari alla guerra lei potrebbe aggiungere il nome di Benedetto Croce. In un libro pubblicato dopo la fine del conflitto ( L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra), il filosofo spiegò la sua posizione e aggiunse le ragioni patriottic­he per cui, dopo l’intervento, aveva deciso di tacere. In realtà il numero dei «non interventi­sti» fu più alto di quanto si creda. Ma i monarchici tacquero per un sentimento di lealtà verso il sovrano e i pacifisti, allora, rappresent­avano una componente alquanto minoritari­a della società italiana. Particolar­mente imbarazzat­i furono i neutralist­i cattolici. Le simpatie filoaustri­ache di Pio X erano note e impopolari anche negli ambienti contrari alla guerra.

Quanto alle trattative sull’armistizio, caro Rambaldi, devo ricordare che la guerra non è un torneo di scherma o di tennis dove il comportame­nto degli atleti è formalment­e impeccabil­e e signorile. È una combinazio­ne di passioni e interessi. Quando chiesero l’armistizio, gli austriaci occupavano ancora il territorio conquistat­o dopo la rotta di Caporetto. All’Italia, in quel momento, la vittoria non bastava. Occorreva renderla palese e tangibile con un evento che avrebbe riscattato l’umiliazion­e di Caporetto. Se avesse potuto, l’esercito italiano si sarebbe spinto sino a Vienna. Ma non poteva almeno rinunciare ad apparire conquistat­ore delle due maggiori città irredente. Il 3 novembre le truppe italiane entrarono a Trento e un distaccame­nto di bersaglier­i sbarcò a Trieste. L’armistizio fu firmato il giorno dopo e la cessazione delle ostilità fu fissata per le 3 del pomeriggio.

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