Messina e l’eredità (sprecata) del Ponte
Smantellata la rete di sensori anti frane, città a secco. Il premier rilancia il progetto
Non ci crederete: Messina «l’instabile», la più esposta alle frane di tutte le città meridionali, aveva una rete di sensori modernissimi per misurare come quelle frane si spostavano. Era costata un botto: l’hanno smantellata. Forse «puzzava di ponte», sorride amaro l’ingegnere Giovanni Mollica, che si occupava dei rapporti tra il Ponte di Messina e il territorio.
Fatto sta che Comune, Provincia, Regione, Asl, Università e insomma tutti ma proprio tutti, quando si sono sentiti offrire la possibilità di prendersela in carico, hanno mostrato un tale interessamento (zero!) da spingere la società costruttrice a svendere un po’ tutto per recuperare qualche spicciolo.
Uno spreco stupefacente. Basti ricordare che, come scriveva mesi fa su La Sicilia Fabio Russello, «negli ultimi quindici anni in Sicilia si sono verificate 78 frane o alluvioni che hanno provocato 58 vittime e danni stimati in almeno 3,3 miliardi di euro». Un bilancio pesantissimo. Soprattutto in rapporto col ventennio precedente, che aveva visto meno frane, meno morti e più ancora meno danni: 681 milioni di euro in valuta attuale. Poco più di un quinto rispetto agli ultimi tre lustri. Il tutto confermato dal dossier sull’Ecorischio 2013 di Legambiente, «secondo cui 7 Comuni su 10 in Sicilia sono a rischio idrogeologico».
Tra tutte, come dicevamo, la più malmessa è la provincia di Messina. Lo sentenzia il «Rapporto preliminare sul rischio idraulico in Sicilia» della Protezione civile, sulla base dei cosiddetti «nodi», i punti di pericolo per le «interferenze» tra corsi d’acqua e insediamenti (meglio: errori e orrori) umani. Con circa un ottavo del territorio isolano, l’area messinese ospita 1.670 nodi su un totale di 5.657: il 30%. Praticamente un terzo. Palermo, la seconda provincia più a rischio, ne ha 913: quasi la metà. Ovvio, per fare un esempio dei rischi che si corrono costruendo nell’alveo d’una fiumara, il rapporto cita ancora 66 fiumare messinesi pesantemente toccate da un’urbanistica demenziale.
Proprio perché lì era previsto di fare il Ponte, oggi rilanciato da Matteo Renzi, la società Stretto di Messina aveva messo su un progetto «multidisciplinare» per monitorare diverse attività ambientali sotto «aspetti fisico-chimici, biologici, ecologici, paesaggistici e sociali del territorio». Per capirci: atmosfera, acque superficiali e sotterranee, ambiente marino, suolo e sottosuolo, vegetazione e flora, fauna, ecosistemi, rumore, vibrazioni, paesaggio, stato fisico dei luoghi e viabilità dei cantieri.
Un progetto ambizioso, affidato con una gara da 29 milioni di euro, poi saliti a 35, al raggruppamento temporaneo di imprese che faceva capo a Fenice, una società controllata dall’Enel francese. Che in collaborazione con Eurolink, il contraente generale guidato da Impregilo, spiega Mollica , conficcò nei punti strategici 160 tubi (metà sulla costa calabra, metà su quella siciliana in un’area più estesa di quella interessata dal ponte vero e proprio) che affondando qua e là fino a 40 metri ospitavano dei sensori di ultima generazione in grado di controllare i movimenti del terreno. Così da poter segnalare gli smottamenti a valle che angosciano i messinesi.
Finché, anche a causa della Grande Crisi, il governo di Mario Monti non decise di lasciar perdere il grande progetto di unire Calabria e Sicilia e il 15 aprile 2013 avviò la Stretto di Messina S.p.A. verso la liquidazione. Col risultato che anche quella rete di monitoraggio ambientale diventò di colpo un peso di cui la società doveva liberarsi. Anche svendendo.
Alternative? «L’ipotesi di trasferire l’attrezzatura esistente o parte di essa a società o amministrazioni (Comuni, Province, Arpa, Università e Istituti di ricerca della Sicilia e Calabria etc.) interessate alla acquisizione e gestione della rete di monitoraggio ambientale di SdM attraverso la definizione di un accordo procedimentale che preveda il trasferimento della strumentazione». E tutto, ovviamente, a prezzi bassissimi. Un affare, soprattutto quegli «inclinometri» in grado di leggere i movimenti delle frane.
Non bastasse, la Stretto di Messina era disposta a cedere la rete, accontentando le varie amministrazioni, anche gratis: «È comunque opportuno sottolineare che tale circostanza rappresenterebbe un vantaggio in quanto la Società eviterebbe di essere coinvolta in tutta una serie di adempimenti amministrativi necessari per le operazioni di smontaggio...».
Di più: poiché i geometri comunali, i tecnici provinciali o i funzionari regionali non erano forse in grado di «leggere» i risultati della rete di monitoraggio, era inteso che sarebbero stati forniti loro dei «report» comprensibili «anche a uno scolaro delle medie». Macché: l’offerta è stata lasciata cadere. Di più: solo l’Arpa, cioè, l’Agenzia regionale per la Protezione ambientale di Messina si è presa il disturbo di consultare qualche rara volta il report fornito. Gli altri enti, in possesso della chiave d’accesso, non hanno mai mostrato interesse. Forse perché quelle attrezzature tecnologiche venivano viste come un’eredità del ponte. Eredità puzzolente.
E così i sensori sono stati via via malinconicamente sfilati dai tubi che li contenevano. Addio monitoraggio. Addio investimento. Prova provata, se mai ce ne fosse ancora bisogno, della straordinaria capacità di certe amministrazioni locali di sapere cogliere le occasioni...
Il progetto Dove il rischio idraulico è più alto nessuno ha voluto il sistema costato 35 milioni