Aung San Suu Kyi verso il trionfo ma non convince più l’Occidente
Domenica primo voto libero in Birmania, i militari si riservano il 25% dei seggi
La Birmania si appresta a festeggiare la vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni di domani. Nelle strade di Rangoon pochi dubitano che la Signora possa ottenere meno di un trionfo. Eppure, amaro paradosso, alla vigilia della consacrazione del Paese alla democrazia (secondo voto in quattro anni), proprio in Occidente si levano molte voci dubbiose sul possibile ruolo «positivo» del premio Nobel della Pace nel futuro economico (e politico) dell’ex regime militare. Le registra, per esempio, il Wall Street Journal che non manca di notare come l’approccio della Signora ai grandi manager in cerca di contatti d’affari e ai diplomatici che cercavano di raggiungere il governo in carica sia stato piuttosto freddo: «Sono rimasti sorpresi dall’ostruzionismo per nulla velato di Aung San Suu Kyi e dai suoi commenti approssimativi». Dunque «non è un segreto — scrive ancora il quotidiano finanziario — che molti businessman occidentali non sono affatto convinti che la Signora sia in grado di governare l’economia birmana».
Nel Paese del Sudest asiatico l’atmosfera, al momento, è però di fierezza e felicità per un traguardo che appare a portata di mano, per quanto le complicate regole elettorali (e possibili pasticci nel conteggio) garantiscono comunque ai militari il 25 per cento dei seggi sia nella Camera dei Rappresentanti (440 totali) sia in quella delle Nazionalità (224). Inoltre, un articolo della Costituzione varata nel 1990, quando Suu Kyi era ancora agli arresti domiciliari, preclude la carica di presidente ai cittadini che abbiano (o abbiano avuto) un consorte o dei figli con passaporto estero. Unico caso: quello della «pasionaria» birmana, vedova dello studioso britannico Michael Aris e madre di Alexander e Kim, entrambi londinesi.
Ciononostante, racconta al telefono da Rangoon un raggiante Zaw Myo Aung, trentasettenne candidato dell’Nld, la Lega nazionale per la democrazia, in cella per due anni — dal 2008 al 2010 — nel famigerato carcere di Insein, «la vittoria sarà nostra, anche se è difficile dire con che percentuale». I numeri contano, proprio per la zavorra dei militari nominati e non eletti. In ogni caso, 32 milioni di birmani dall’alba di domenica fino alle 16 locali, entreranno nei seggi per scegliere i loro rappresentanti. Per quanto siano le seconde votazioni dal ritorno alla democrazia, di fatto sono le prime veramente libere, visto che nel 2011 l’Nld, per volere di Aung San Suu Kyi, non aveva partecipato alla competizione elettorale.
Zaw Myo Aung teme soltanto il voto delle minoranze: «Nelle città principali, Yangon (ex Rangoon, ndr), Mandalay — dice al Corriere — non c’è storia: avremo il 90 per cento dei suffragi. Ma nelle periferie sarà diverso: è mancata la volontà di stringere vere alleanze con i partiti etnici». Vero è che partecipano al voto 91 differenti formazioni: il gioco delle alleanze era più simile a un rompicapo che a scelte strategiche. Forse per questo, Aung San Suu Kyi, chiamata anche l’Orchidea di ferro, ha deciso di andare avanti per la sua strada. Una critica in più non è un problema per una donna che ha trascorso 15 anni agli arresti (in prigione o nella sua casa sulle rive del lago Inya) mentre teneva testa a una Giunta militare che ha retto la Birmania con il pugno di ferro dal 1962 al 2011. Più difficile immaginare come saprà, dice lei, «governare il Paese da dietro le quinte, sarò comunque sopra il presidente».
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