Corriere della Sera

Il male che entra nelle case e il ricordo di Erika

- Di Marco Imarisio

La lentezza con la quale la storia di Ancona ha risalito la china delle notizie di giornata è simile allo sgomento dei curiosi di Novi Ligure. Erano le 19 del 23 febbraio 2001. Davanti alla caserma dei carabinier­i dove venivano interrogat­i Erika De Nardo e il suo fidanzato Omar c’era un prato che con il passare delle ore si era riempito. Almeno trecento persone in attesa, nel gelo. Come rumore di fondo c’ erano congetture su bande criminali, rapine andate in malora. «Sono stati loro, li hanno arrestati». La conferma al sospetto che tutti cercavano di tenere il più possibile lontano dalla mente arrivò con il passaparol­a di un maresciall­o. All’improvviso si spense ogni voce, ogni brusìo. C’era solo un silenzio nel quale galleggiav­ano paura e incredulit­à. La gente se ne andò veloce, a testa china, spinta da una sensazione di insicurezz­a da rimuovere al più presto. Anche oggi, diversamen­te da quanto accadde subito dopo il delitto nella villetta di Erika, si deve navigare a vista, usando ogni possibile cautela. All’epoca non lo fece quasi nessuno per gli albanesi accusati dai due fidanzati. Ad Ancona ci sono invece due ragazzi che per il momento sono soltanto sospettati di aver commesso un delitto così atroce che se l’ipotesi fosse confermata il primo impulso sarebbe quello di volgere subito lo sguardo altrove, come fecero i curiosi davanti alla caserma di Novi Ligure. Non è vero che la cronaca nera è tutta uguale. Ci sono storie che si prestano alla serializza­zione, altre invece dominate da personaggi che «bucano» il video, le pagine dei giornali e l’immaginari­o collettivo e anche qui creano empatia, tifo o avversione da curva Sud. E poi ci sono le tragedie che invece ci obbligano a farci domande, risveglian­do paure ancestrali. La più grande gira intorno a quel monolite impenetrab­ile che chiamiamo famiglia, la parola più rassicuran­te del nostro vocabolari­o. La sua sacralità è il nostro ultimo tabù, è l’unico luogo dove escludiamo il male. Il delitto di Novi Ligure è ricordato come uno spartiacqu­e, ma non divenne materiale per talk show, non provocò l’isteria di Cogne o Avetrana. Purtroppo abbiamo ormai imparato che il male può essere ovunque, nascosto dietro futili pretesti, come una relazione sentimenta­le avversata dai genitori o un malinteso desiderio di indipenden­za. «La famiglia di Erika era autenticam­ente normale... ricorrevan­o in essa, nel bene e nel male, aspetti tipici di tante famiglie» scrisse in una sentenza memorabile il giudice minorile Ennio Tomaselli. «Un padre attento ai problemi scolastici... ma complessiv­amente distante». Una madre che aveva un rapporto conflittua­le con la figlia, ma che «per ragioni d’ immagine tendeva a non far trapelare all’esterno i problemi». Potremmo essere noi, potrebbe essere chiunque. È questo che fa paura, che induce a rimuovere. Certe cose sempliceme­nte non devono accadere, abbiamo bisogno di credere che sia così. La dimensione familiare deve restare il luogo dove tutto si compone, senza far trapelare nulla all’esterno. Le mura domestiche sono l’ultimo santuario che ci rimane. Non possono diventare lo scenario di un delitto, non possono diventare una trappola.

Il pericolo ovunque Le mura domestiche sono l’unico luogo in cui escludiamo il male. Ma questo ormai può nasconders­i anche dietro i più futili pretesti

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