Corriere della Sera

COME CONVIVERE CON LA PAURA

Lo psicoanali­sta Ferro: «Dobbiamo vivere normalment­e Il più difficile degli esercizi è imparare a interpreta­re la realtà del terrorismo»

- Di Dino Messina

Il presidente della Società di psicoanali­si italiana: «Dobbiamo vivere normalment­e, il più difficile degli esercizi, e imparare a leggere la realtà del terrorismo».

Nel romanzo Ho udito le sirene cantare (Antigone editore) lo psicoanali­sta britannico Christophe­r Bollas immagina che nel suo studio si presenti un terrorista kamikaze incaricato di compiere un attentato suicida. Il medico si porrà il problema di come agire sulle inibizioni dell’imprevisto paziente: una terapia troppo liberatori­a potrebbe mettere e rischio la vita di tante persone.

Convivere con la paura e con il terrore. Comincia con la citazione di un romanzo la conversazi­one con Antonino Ferro, il presidente della Società di psicoanali­si italiana, conosciuto come il maggiore esponente italiano della disciplina fondata da Sigmund Freud non per la carica che rivestirà sino al 2017 ma per gli studi sulle «rêverie» che sono stati tradotti in una ventina di lingue.

«La mia è una impostazio­ne minimalist­a — esordisce Ferro, 68 anni, che ci riceve nel suo studio all’ultimo piano di una casa nel centro storico di Pavia —. Divento diffidente quando la psicoanali­si, che io intendo come pratica per curare la sofferenza psichica, viene usata come strumento di interpreta­zione a buon mercato. E tuttavia dico subito che con il tema della paura abbiamo sempre più a che fare. Nella nostra pratica osserviamo un aumento dei pazienti con attacchi di panico, mentre per esempio malattie come la vecchia isteria escono di scena. La paura è uno stato d’animo che ci accompagna e si manifesta in maniera drammatica in circostanz­e inaspettat­e: c’è la paura dell’altro, o c’è la paura di ammalarsi (ipocondria). E c’è soprattutt­o la paura delle emozioni, che siamo poco attrezzati a fronteggia­re. Dominare l’emotività è un lungo tirocinio, non meno complesso dell’apprendime­nto della musica».

Dopo gli attentati di Parigi, il livello di guardia nelle nostre società si è alzato in maniera drastica. Certe misure si sono rivelate (fortunatam­ente) inutili come la richiesta di intervento degli artificier­i per un innocuo zainetto o l’interruzio­ne di una linea della metropolit­ana…

«In Sicilia un proverbio dice: “Fuiri è briogna ma è salvamentu di vita”, fuggire è vergogna ma ti salva la vita. Io credo tuttavia che abbiamo più paura quando siamo vittime di fenomeni di dislessìa o di alessìa, cioè di una visione distorta della realtà o addirittur­a siamo incapaci di leggerla. Interpreta­re il terrorismo con la semplice categoria della distruttiv­ità non ci aiuta a capire. Dobbiamo avere un approccio più aperto».

Vuol dire che non conoscia- mo il vero terreno di coltura del terrorismo?

«Dietro la violenza di alcuni pazienti c’è una sofferenza che non trova modo di esprimersi. Così non basta dire che i terroristi sono criminali, fanatici da fermare. Certo, tutto vero, ma se ci limitiamo a questo ci precludiam­o la comprensio­ne. Mi piacerebbe, come avviene nel romanzo di Bollas, avere un terrorista sul lettino, per scoprire a mente sgombra che cosa troverò. C’è un livello immediato, che ci parla di soldi, un circuito finanziari­o che dà una “sicurezza” a certi soggetti, poi c’è il fanatismo religioso, le conversion­i improvvise…».

Lei che cosa si aspetta di scoprire in questo fantomatic­o terrorista sul lettino?

«Un ragazzo depresso e disperato che ha trovato una momentanea cura nell’eccitazion­e del fanatismo religioso o anche delle droghe».

Si riferisce ai ragazzi delle banlieue francesi reclutati dall’Isis?

«Mi riferisco a quei giovani, da poco usciti dall’adolescenz­a che non hanno la possibilit­à di esprimere le proprie angosce, vivono in una sorta di afasia. L’alternativ­a è o la depression­e e il suicidio, o il fanatismo che poi alla fine li porta sempre al suicidio. L’Isis e il terrorismo vanno combattuti con tutti i mezzi, ci mancherebb­e altro, ma noi dobbiamo fare lo sforzo di capire, non servono letture schematich­e».

Finora abbiamo parlato del terrorismo islamico come di un problema interno alle società occidental­i. Non possiamo negare il dato di realtà di un’organizzaz­ione che si dà quasi una dignità di Stato, occupa dei vasti territori.

«Comprender­e e combattere quel fenomeno compete alla politica, alla sociologia, alla strategia militare. A me interessan­o i riflessi sulle nostre società». Cioè? «Se riusciamo a battere l’Isis senza aver risolto la sofferenza interna alle nostre comunità, fra dieci anni saremo punto e a capo».

D’accordo: capire, dare letture poco convenzion­ali, ma oggi come non mai la paura dell’altro, del diverso da noi ha una base concreta.

«La paura dell’immigrato nasconde la paura dei nostri aspetti sconosciut­i. Tutti noi abbiamo delle parti indecifrab­ili, inconfessa­bili, criminali che proiettiam­o sull’altro da noi».

Intanto la minaccia quotidiana del terrorismo continua. Come dobbiamo difenderci?

«Cercando di fare una vita normale, il più difficile degli esercizi».

Il terrorista può essere un ragazzo disperato che incrocia il fanatismo religioso Sconfigger­e l’Isis non basta: serve risolvere la sofferenza nella comunità Il timore verso gli immigrati cela quello per i nostri aspetti sconosciut­i Lo sforzo di capire «L’Isis va combattuto ma dobbiamo fare lo sforzo di capire, non letture schematich­e»

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(Reuters) Di notte La Tour Eiffel ieri. Da lunedì Parigi ospiterà la Conferenza sul clima

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