Corriere della Sera

STIGLITZ: NON SPERATE NEGLI USA

- Di Federico Fubini

Emergenza siriana: questa volta, dice il Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, l’Europa dovrà fare da sé. Senza gli Stati Uniti.

Aquarant’anni dallo studio che gli sarebbe valso il Nobel per l’Economia, Joseph Stiglitz non cambia stile: fuori dagli schemi, eclettico invece che ideologico, fermo sui valori. È la miscela che ha messo in mostra ieri a Roma al Forum dell’Istituto Einaudi per l’economia e la finanza. La stessa che lo spinge verso conclusion­i decisament­e crude sull’emergenza siriana: questa volta, dice, l’Europa dovrà fare da sé. Senza gli Stati Uniti.

Gli attentati di Parigi e le loro conseguenz­e nuoceranno alla ripresa in Europa?

«Il fatto fondamenta­le è che l’euro è broken, è guasto. Non la struttura dei singoli Stati, proprio quella della zona euro è tale da impedire la crescita. L’austerità imposta dalla Germania rende il quadro anche più complicato. Dunque anche lo scenario più ottimistic­o è negativo, e questa emergenza non fa che peggiorare le cose».

Teme che l’allarme terrorismo freni i consumi?

«Esatto. Prima degli attentati c’era un po’ di ottimismo in Italia, non molto, ma era l’ottimismo di 7 anni di recessione che forse stanno finendo. Non è come dire che cresceremo, ma forse abbiamo toccato il fondo. Certo il sistema era già disfunzion­ale prima degli eventi».

Non dirà che l’area euro rischia un’altra recessione.

«Sì. Ma non ho mai fatto una grande differenza fra recessione e stagnazion­e. Il punto di fondo è che l’Europa è in stagnazion­e, un po’ meglio un anno, un po’ peggio un altro. Gli attentati di Parigi sono uno choc negativo importante, ma il quadro resta quello».

Alcuni Stati spenderann­o di più in difesa e sicurezza. Almeno daranno uno stimolo keynesiano all’economia?

«Solo se c’è un rilassamen­to dei vincoli di bilancio. Non se si fanno tagli altrove per compensare. Se i maggiori investimen­ti nella sicurezza venissero tagliando sull’istruzione, per esempio, gli effetti sulla crescita sarebbero negativi».

Due terroristi di Parigi sono sbarcati come rifugiati attraverso la Grecia: l’Europa deve frenare i flussi?

«Non so se l’Europa o anche gli Stati Uniti siano in grado di filtrare le persone. In passato non hanno avuto grandi risultati, ma non ci hanno provato davvero. L’altra questione è se questi terroristi si sarebbero infiltrati comunque, se non fossero potuti arrivare sui barconi: magari ci sarebbero riusciti, con un po’ più di difficoltà. Sono le domande che l’Europa deve porsi. Per quanto riguarda poi l’economia, dipende dalla situazione in ogni Paese. Per esempio in Grecia, con una disoccupaz­ione al 25%, avere più stranieri che cercano lavoro non aiuta». Vale anche per l’Italia? «Vale per l’Italia e fondamenta­lmente per qualunque Paese a parte la Germania. L’idea che gli immigrati siano uno stimolo è un po’... voglio dire, se l’Europa spendesse per accoglierl­i e si potesse allentare un po’ il bilancio pubblico, sarebbe un conto. Ma non vedo indicazion­i di questo tipo. Così, con una maggiore offerta di disoccupat­i quando ce ne sono già in eccesso, si possono creare divisioni sociali».

Per stabilizza­re la Siria serve l’impegno americano. Ma da quando gli Stati Uniti possono contare sul petrolio di scisto, l’interesse per il Medio Oriente non è un po’ sceso?

«La politica estera del mio Paese non è determinat­a dall’interesse dell’americano medio, ma di certi gruppi dell’establishm­ent. L’indipenden­za energetica non significa che non ci siano interessi di certe aziende americane in Arabia Saudita. No, il disimpegno viene dalla consapevol­ezza che la politica di George W. Bush ha fallito, in Medio Oriente abbiamo creato più problemi di quanti ne abbiamo risolti e non c’è motivo di pensare che riusciremo in futuro. Meglio star fuori. Il disimpegno viene dalla frustrazio­ne di 8 anni di Bush, ma 7 anni di Barack Obama non hanno risolto il problema».

In Europa l’indecision­e di Obama sulla Siria preoccupa. Cambierà qualcosa nel prossimo futuro?

«No. O meglio, ritiro ciò che ho detto. Ci sono le elezioni e penso che alcuni dei candidati, se eletti, probabilme­nte torneranno a impegnare l’America in Medio Oriente». Hillary Clinton? «Sì. Anche Jeb Bush. I repubblica­ni più matti invece sono votati dagli isolazioni­sti».

Vuole dire che per stabilizza­re la Siria dovremo aspettare un’altra amministra­zione Usa fra 16 mesi?

«Penso che la sua affermazio­ne sia probabilme­nte corretta. Gran parte degli americani vede l’Isis come il primo problema e l’obiettivo di liberarsi di Assad come un residuo delle primavere arabe del 2011. Una nuova amministra­zione potrebbe mettere da parte la questione di Assad, lavorare con la Russia sull’Isis e poi fare i conti in seguito. Assad è uno dei peggiori dittatori, ma in fondo noi americani non facciamo di mestiere quelli che rimuovono i dittatori».

Anche Obama la vede così?

«Lui fatica a cambiare marcia. Ha detto che lavorerà con la Russia solo se Mosca accetta di far uscire di scena Assad. Ma la Russia è schierata in difesa di Assad. Significa che noi americani stiamo subordinan­do quella che dovrebbe essere la nostra priorità numero uno, l’Isis, a un vecchio impegno a cambiare i cattivi regimi».

Insomma, la Francia e l’Europa dovranno fare da sole?

«Già. In fondo l’Isis è una minaccia più imminente per l’Europa. Forse i governi europei cercherann­o di cooperare con Vladimir Putin, ma penso che prima dovrebbero dire al presidente russo che non lasceranno cadere l’Ucraina. Lì c’è un conflitto congelato e l’Europa deve chiarire che non permetterà alla Russia di scioglierl­o nel senso sbagliato in cambio di un patto contro l’Isis».

Lei crede alla determinaz­ione strategica dell’Europa?

«Sì, ho fiducia, eccetto su un punto: la Germania ha commesso il profondo errore strategico di diventare troppo dipendente dal gas russo. Si è messa nella posizione in cui il suo interesse e quello del mondo libero sono diversi. Per il momento si è comportata in maniera ragionevol­e. Ma come economista mi preoccupo quando vedo un paese il cui interesse è contrario al benessere europeo».

L’area euro rischia un’altra recessione e i fatti di Parigi sono uno choc importante

Il disimpegno Viene dalla frustrazio­ne di 8 anni di Bush, ma 7 anni di Obama non hanno risolto il problema

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Joseph Stiglitz, 72 anni, Nobel per l’economia nel 2011, è stato consiglier­e di Bill Clinton

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