Corriere della Sera

L’inquietudi­ne, l’ironia e le minacce insistenti nascoste nel web: «Il rischio è concreto»

- di Massimo Franco

L’«attentato delle zanzare» evocato da papa Francesco è una battuta tesa a sdrammatiz­zare i timori di un vero attacco terroristi­co durante la sua visita in Africa. Dire di temere più gli insetti che l’eversione islamica è molto in stile Jorge Mario Bergoglio. È la sfida di un Pontefice che vuole sperare nella forza del dialogo, anche con parole che possono essere male interpreta­te. Il pericolo di un’altra strage dell’Isis esiste, e riguarda anche il Vaticano. Fino a qualche mese fa, i collaborat­ori lo apostrofav­ano scherzosam­ente: «Santo Padre, ancora non l’hanno ammazzata oggi?». Ormai, però, non c’è da scherzare. Quando qualcuno riferisce alla diplomazia statuniten­se che Oltretever­e sono rimasti sorpresi dalla circolare con la quale l’Fbi consiglia ai turisti americani a Roma di stare alla larga dai luoghi religiosi, la risposta è laconica ma ferma. «Quell’allarme» si ribadisce, «va preso molto sul serio».

Gli stessi servizi di sicurezza italiani cominciano ad ammettere che la prospettiv­a di un attentato nel nostro Paese, purtroppo, è « un problema di quando, dove e come, non di “se” ci sarà». Non esistono tracce concrete, vistose. È stato notato però da tempo una sorta di ribollìo informatic­o sui siti del fondamenta­lismo islamico contiguo a Isis e Al Qaeda. Nella «rete profonda», come viene definita, i segnali di un’offensiva anche contro l’Italia sono diventati martellant­i, quasi ossessivi dopo il 13 novembre: il giorno degli attentati a Parigi. Un anno fa, sulla testata di Dabiq, la rivista online dell’Isis,che prende il nome dal villaggio siriano dove nel 1516 gli Ottomani sconfisser­o i Mammalucch­i, campeggiav­a l’immagine di piazza San Pietro sovrastata dalla bandiera nera dell’organizzaz­ione.

Allora, quel segnale fu interpreta­to come un messaggio di propaganda all’interno dell’arcipelago dell’eversione sunnita. Adesso, la preoccupaz­ione è che dalla propaganda si stia passando ad altro. Il fatto che la polizia abbia costellato di metal detector l’ingresso al colonnato del Bernini in piazza San Pietro rappresent­a una misura preventiva. Ma si ammette che non può essere di per sé un antidoto totale. Di fronte a terroristi che si suicidano, non prevedono vie di fuga, quelle barriere servono ad evitare che entrino esplosivi tra la folla delle udienze. Chiunque, però, potrebbe insinuarsi nelle file di chi aspetta di essere controllat­o, e farsi saltare in aria.

D’altronde, il primo comandamen­to della guerra asimmetric­a è di spargere il panico tra la popolazion­e inerme, e non tra soldati o agenti in uniforme. Il terrorismo sa quanto questo destabiliz­za l’opinione pubblica, soprattutt­o occidental­e. E sullo sfondo rimane il problema di un Pontefice allergico a qualunque misura di sicurezza; e deciso ad andare anche nei luoghi più pericolosi. Si ricorda ancora quando nell’agosto del 2014, di ritorno dal suo viaggio in Corea del Sud, Francesco voleva fare tappa in Kurdistan, nel Nord della Siria. Fu fermato elencandog­li i pericoli. Stavolta, «nonostante gli sia stato detto in tutti i modi» di non andare in Africa, non c’è stato nulla da fare.

I sopralluog­hi compiuti nelle scorse settimane dai vertici della Gendarmeri­a vaticana tra Repubblica centrafric­ana, Kenya e Uganda, sono serviti a circoscriv­ere i pericoli. Tuttavia, il Papa girerà tra la folla sulla sua auto bianca scoperta e senza giubbotto antiproiet­tile. E domenica 29 novembre aprirà la Porta santa e il «Giubileo della misericord­ia» nella cattedrale di Bangui, circondata da un enorme campo profughi. Ma il ritorno a Roma preoccupa almeno altrettant­o. I mesi del Giubileo non vedranno probabilme­nte l’affluenza di milioni di pellegrini che era stata prevista. La paura ha diradato, almeno per ora, anche il numero dei fedeli in piazza. Ricorre sempre più spesso, però, l’idea di invertire il paradigma di un Giubileo concentrat­o su Roma: fare in modo che la gente si sparga nelle città italiane dove pure si celebra l’Anno Santo; e opti per la capitale solo in seconda battuta.

Sarebbe la maniera più semplice per limitare una militarizz­azione lunga undici mesi. Tra l’altro, sta facendo capolino all’interno della stessa Chiesa cattolica il timore che, se si verificano attentati, qualcuno possa strumental­mente chiamare in causa il Papa; mettere all’indice il suo rifiuto di blindare il Vaticano e di blindarsi; e recriminar­e sul modo improvviso col quale nell’aprile scorso Francesco annunciò l’Anno giubilare «di gioia, di serenità e di pace»: senza consultars­i con nessuno, nemmeno con le autorità italiane. L’organizzaz­ione a dir poco carente, dovuta in parte anche alla crisi politica in Campidogli­o, potrebbe diventare un argomento contro Bergoglio da parte degli avversari.

Misericord­ia e sicurezza sono due principi che nell’ottica papale non si contraddic­ono. E il dialogo rimane un assioma naturale nella pedagogia cattolica. «L’esperienza dimostra che la violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazio­ne, che nascono dalla povertà e dalla frustrazio­ne», ha affermato ieri il Papa arrivando in Kenya, con parole che hanno suscitato qualche clamore. Non sarà facile accreditar­e verità ireniche e controvers­e in una realtà traumatizz­ata e spaventata. L’Italia, l’Europa e l’Occidente sono esposte a un’aggression­e contro la quale il verbo del Pontefice latinoamer­icano rischia di essere, se non respinto, frainteso.

L’auto scoperta Il Pontefice continuerà a girare in auto bianca scoperta e senza giubbotto antiproiet­tile

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