Corriere della Sera

«La colpa di Erdogan Ha chiuso gli occhi sui jihadisti in Siria»

«Ma per batterli non servono le truppe sul terreno»

- Di Paolo Valentino

o spero solo che Mosca non reagisca in modo sproporzio­nato. È evidente che i piloti russi hanno commesso un errore minimo, volutament­e o meno, ma non c’è dubbio che la reazione turca è stata eccessiva, quasi cercassero l’incidente. L’abbattimen­to dell’aereo russo illustra purtroppo molto bene la complessit­à e i rischi di ogni azione militare in Siria. Ci sono sei Paesi attivament­e coinvolti nelle operazioni: Turchia, Russia, Stati Uniti, Iran, Giordania e Francia. Non solo non sono coordinati, ma non sono neppure tutti sulla stessa linea, nel senso che non è sempre chiaro chi appoggi chi. Ma il problema più grave è che manca ogni coordiname­nto politico».

Al telefono da New York, Fareed Zakaria non risparmia critiche pesanti all’atteggiame­nto tenuto dalla Turchia nella vicenda siriana. Secondo l’analista della Cnn, uno dei più attenti studiosi del mondo globalizza­to, «Ankara ha assunto una posizione assurda, priva di giustifica­zioni strategich­e». Può spiegarlo? «Erdogan voleva la cacciata di Assad a ogni costo, ma quando ha visto che non ci riusciva, contro l’Isis, anche dopo Parigi. Perché?

«Perché dobbiamo essere misurati e seri su come conseguire gli obiettivi che ci siamo proposti. La domanda fondamenta­le è: una volta deciso di mettere i boots on the ground per sconfigger­e lo Stato Islamico, cosa faremo per mettere ordine nella Siria liberata? Senza risposta a questo interrogat­ivo, vedremo le stesse cose viste in Iraq, Libia, Yemen: vuoto di potere, caos politico, violenza jihadista, sangue. L’Isis si squaglierà, mimetizzan­dosi nel deserto o tra la popolazion­e, pronta a materializ­zarsi di nuovo non appena saremo partiti».

Ma il processo diplomatic­o iniziato a Vienna non è il binario parallelo che dovrebbe accompagna­re l’azione militare?

«Non sono sicuro che una maggior pressione militare Insieme Il presidente russo Vladimir Putin fotografat­o con l’allora premier Recep Tayyip Erdogan a un summit nel 2013

possa farci avanzare più rapidament­e verso una soluzione politica. In Vietnam gettammo più bombe che in tutta la Seconda guerra mondiale: fu quello a portare i nordvietna­miti al tavolo negoziale? Ho qualche dubbio. Dobbiamo coinvolger­e Russia e Iran a pieno titolo, lavorare con loro e individuar­e un’architettu­ra politica che abbia senso: gli alawiti in Siria sono una minoranza del 14%. Si ripete lo scenario del Libano, con la minoranza cristiana, e dell’Iraq, con i sunniti, dove la ribellione della maggioranz­a contro la minoranza al potere, ha prodotto la guerra civile. In Libano è durata 15 anni, in Iraq continua. Ora tocca alla Siria e la chiave è come sempre trovare un posto a quella minoranza, che non può più governare, ma che non può essere eliminata. Credo che la soluzione sia quella di una “spartizion­e morbida”».

La sua riluttanza sull’intervento di terra rispecchia quella dell’amministra­zione Obama. Sembra una situazione rovesciata rispetto al 2001: allora gli Stati Uniti sotto attacco erano per intervenir­e, mentre l’Europa frenava; oggi a essere attaccata è la Francia e sono gli europei (o meglio, alcuni) a spingere per l’ intervento e Washington a frenare.

«È vero solo in parte. L’aviazione Usa ha condotto 9 mila raid aerei contro l’Isis in Siria, la Francia alcune centinaia. Washington è pienamente impegnata. La riluttanza è nel cominciare a conquistar­e territorio, perché al momento nessuno sa dire cosa farne».

Siamo in guerra con l’Islam o è l’Islam in guerra con se stesso?

«Questo è soprattutt­o un conflitto interno al mondo islamico. Non è uno scontro delle civiltà. Isis è un’organizzaz­ione sunnita che vuole sterminare gli sciiti, prendendo la loro terra e creando un Califfato wahabita. Certo, è anche anticristi­ana e antioccide­ntale. Ma non dimentichi­amo che la ragione per cui attaccano la Russia è il suo coinvolgim­ento in Siria e così vale per la Francia. È un’organizzaz­ione settaria, limitata nella capacità geografica: non sono in grado di tenere a lungo i territori curdi, né possono contare su un forte appoggio di popolazion­i locali anche nelle terre che controllan­o, come dimostrano i milioni in fuga». Come li sconfiggia­mo? «Bisogna essere pazienti. Nessuna società può essere al 100% sicura quando gli attacchi avvengono in luoghi della vita quotidiana, come i caffè, i ristoranti. E in fondo il solo tentativo ambizioso del 13 novembre, quello allo stadio, è fallito. La sicurezza ha funzionato. Se coordiniam­o le intelligen­ce, blocchiamo le fonti di finanziame­nto, limitiamo la loro capacità di muoversi, i terroristi non possono vincere. Ma dobbiamo farlo senza isterismi. Mi preoccupa il fatto che in Europa stia prevalendo un’atmosfera di paura, un’onda di sentimento anti islamico. È grave perché ciò rischia di distrugger­e i fondamenti dell’Europa: apertura e integrazio­ne, di cui oggi c’è più e non meno bisogno. I Paesi europei devono condivider­e più informazio­ni, avere migliori controlli alle frontiere esterne, avere procedure comuni per il diritto d’asilo, ma non chiudersi a riccio, cosa fra l’altro impossibil­e. Occorre più Europa».

Mi preoccupa che in Europa prevalga un sentimento di paura

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